Di Gerardo Valentini
Hanno gridato allo scandalo, per le frasi pronunciate martedì scorso dal ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida. Al complottismo. Al suprematismo bianco. Si sono detti “indignati” e “inorriditi”, dando la stura al consueto e prevedibilissimo repertorio che viene utilizzato in questi casi. Dai fantasmi nazisti di quasi un secolo fa (Schlein: «Parole indegne di un ministro, che ci riportano agli anni ’30») alle stragi commesse da fanatici xenofobi in tempi assai più recenti, ma in massima parte negli USA.
Ecco fatto: la demonizzazione al posto dei ragionamenti. Dando per certo che con quella dicitura, “sostituzione etnica”, ci si volesse richiamare al famigerato “Piano Kalergi”, strizzando l’occhio alle frange oltranziste che lo sostengono in modo viscerale.
Partiamo proprio da qui, allora. Da ciò che ha detto realmente Lollobrigida: «Non possiamo arrenderci all’idea della sostituzione etnica: gli italiani fanno meno figli e li sostituiamo con qualcun altro. Non è quella la strada».
Se la sfrondiamo delle interpretazioni e delle forzature che sono seguite, l’affermazione è del tutto legittima. Da un lato fotografa una situazione palese. Dall’altro ipotizza, o rivendica, la possibilità di affrontarla con un approccio diverso da quello seguito finora.
È così sbagliata, quella foto?
È così infondata, l’alternativa che è stata proposta?
Complotto o non complotto, il rischio esiste
Lo scenario evocato da Lollobrigida è sotto gli occhi di tutti. Ci sono sempre meno italiani, per nascita, e sempre più stranieri che, arrivati con ogni mezzo e per lo più senza alcuna autorizzazione, decidono di fermarsi.
Secondo i fautori del fenomeno, questa immigrazione di massa pressoché indiscriminata, va benissimo così. Sia per motivi umanitari, o sedicenti tali, sia per ragioni di carattere economico e previdenziale, tra la necessità delle aziende di acquisire nuova manodopera e l’esigenza dell’Inps di accrescere il gettito contributivo.
Secondo Lollobrigida, al contrario, è il caso di non appiattirsi su ciò che accade e di adottare una strategia differente. Visto che il problema è il calo demografico, bisogna concentrarsi su questo e cercare di invertire la tendenza. Se può essere vero che oggi non è possibile rinunciare al supporto dei lavoratori stranieri, ciò non vuol dire che lo stesso vincolo debba sussistere anche domani. E all’infinito.
I termini autentici del ragionamento sono questi. E non sembra così difficile comprenderli. A due condizioni, però. La prima è non essere accecati dal pregiudizio. La seconda è condividere la pietra angolare su cui poggia l’edificio. Ossia l’idea, la convinzione, che al di là di tutte le differenze tra le varie zone e i singoli individui esista un popolo italiano che si percepisce come unitario, accomunato dalla propria storia e da un carattere nazionale diverso da quello di altri Paesi e di altri popoli.
Su un piano strettamente logico non è affatto semplice precisare quali siano i tratti unificanti e come essi si siano formati, ma l’esperienza concreta rende evidente, in mille modi, ciò che l’analisi razionale fatica a spiegare. E comunque non dovrebbe sfuggire che il sentimento di appartenenza non è una formula chimica, ma un’intuizione e un affetto.
L’obiezione tipica, da parte di chi ha in odio questa idea di italianità e la scambia per ostilità xenofoba o addirittura per razzismo, è che non si tratta di un dato reale ma di una sorta di allucinazione. Il 19 aprile, su Repubblica, Michele Serra ha srotolato la solita tiritera sul nostro passato eterogeneo: “Discendiamo, a partire dall’Impero Romano, da una moltitudine di popoli (latini, greci, etruschi, sarmatici, goti, normanni, arabi, spagnoli, francesi, ebrei, nordafricani, e chissà quanti ne dimentico) e ciò che ci apparenta, oltre alla coabitazione, è la lingua, la cultura, la Costituzione, le leggi”.
Ma ci sono due vizi decisivi, in questa pseudo ricostruzione. Il primo è il fattore tempo: l’amalgama che si è generato a poco a poco, sull’arco di lunghissimi periodi, non si può produrre a comando e nel giro di pochi anni. Benché immersi nello stesso habitat sociale, e nello stesso calderone mediatico, gli immigrati che arrivano in gruppi consistenti e coesi tendono a mantenere la propria identità. Il che, d’altronde, è del tutto naturale.
Il secondo abbaglio, ammesso che sia in buona fede, è mettere sullo stesso piano “la lingua, la cultura, la Costituzione, le leggi”. La lingua si impara con relativa facilità. La Costituzione e le leggi si è tenuti a rispettarle per non essere perseguiti. Ma la cultura, invece, è un tale coacervo di elementi, di esperienze, di sedimentazioni collettive, che può non bastare un’intera vita per acquisirla davvero e profondamente.
Il razzismo è pretesa di superiorità. Niente a che vedere con il sentirsi italiani e averlo a cuore. E desiderare, perciò, che l’accoglienza degli stranieri non degeneri, spingendoci nel baratro di una mescolanza caotica e indistinta.
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Chi vuol mangiare grilli etc. si accomodi. Ma noi vogliamo essere avvisati