Di: Gerardo Valentini
Si chiama SCO, che sta per “Shanghai Cooperation Organisation”, e chi ancora non la conosce farà bene a colmare la lacuna. Perché la sua incidenza sulle vicende mondiali è destinata a crescere in modo massiccio: l’Asia ne è l’ambito naturale e l’asse portante, non certo l’orizzonte esclusivo e il confine invalicabile.
La Russia, infatti, è presente sin dalla nascita nel 2001 (come evoluzione del preesistente gruppo dei “Cinque di Shangai”, formato anche da Cina, Kazakistan, Kirghizistan e Tagikistan) e in seguito si è aggiunta la Bielorussia, mentre fra i partner “esterni” c’è l’Egitto.
Partita da sei soci, la SCO è salita via via a dieci. Tra cui spicca, dal 2017, un altro colosso demografico come l’India.
La previsione è facile: in futuro il numero degli aderenti aumenterà sensibilmente. Per l’ottimo motivo – ottimo per loro e insidioso per noi – che si tratta di una parte sempre più rilevante della popolazione e dell’economia dell’intero pianeta. Già oggi, limitandoci ai dieci membri effettivi, il 42,1 per cento degli abitanti e quasi il 25 del PIL.
Una forza trainante che non può non attirare altri Stati desiderosi di migliorare le loro prospettive e di trovare nuovi spazi di autonomia. Una potenza complessiva che cresce di continuo e che spinge a rivendicare un nuovo ordine mondiale. Che non sia più quello odierno, imperniato sull’egemonia degli Stati Uniti d’America e sulla pretesa che il solo modello politico accettabile siano le liberaldemocrazie occidentali.
Nazioni Unite, ma su altre basi
L’alternativa proposta ha un nome preciso: “Global Governance Initiative (GGI)”. E come ha sottolineato il presidente cinese Xi Jinping nel discorso di apertura del Vertice dovrebbe consistere in un sistema di relazioni che sia «più giusto ed equo, per progredire verso una comunità con un futuro condiviso per l’umanità».
Una sorta di nuova ONU, nella quale «tutti i Paesi, indipendentemente da dimensioni, forza e ricchezza, siano partecipanti, decisori e beneficiari paritari della governance globale» per giungere a «una maggiore democrazia nelle relazioni internazionali e aumentare la rappresentanza e la voce dei Paesi in via di sviluppo».
Qualcosa di vero c’è. Qualcosa di infido anche.
Ma è la stessa identica osservazione che si può fare riguardo all’ONU che conosciamo. Con la sua uguaglianza di facciata e il potere di veto riservato ai cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, (Cina, Francia, Regno Unito, Russia e USA): l’assemblea vota a stragrande maggioranza e basta che uno dei privilegiati si opponga per vanificare la volontà generale.
All’origine, nel 1945 e sull’onda della Seconda guerra mondiale, poteva avere senso. Ormai non più, se non come strumento di dominio e di coercizione. Eppure è ancora lì.
Chiaro: le istanze magnificate da Xi Jinping non sono disinteressate e dietro i richiami ideali si celano disegni di potere tutt’altro che egualitari. E men che meno filantropici.
Affermazioni come “dovremmo continuare a promuovere gli scambi e l’apprendimento reciproco tra le civiltà e scrivere brillanti capitoli di pace, amicizia e armonia tra paesi diversi per storia, cultura, sistema sociale e fase di sviluppo” vanno prese per quello che sono: proclami retorici che mirano a dare una patina di nobiltà all’obiettivo fondamentale di una maggiore influenza su vaste aree del globo.
Ciononostante, il consenso che si sollecita non è privo di motivazioni reali, né di vantaggi concreti. L’orizzonte che viene fatto balenare ha il fascino di un nuovo inizio: la potente suggestione che avere finalmente la possibilità di fare a modo proprio e di interagire soprattutto con popoli in qualche modo affini, sia preferibile – di gran lunga preferibile – a dover assecondare le sollecitazioni di Washington.
Le sollecitazioni che in caso di necessità diventano pressioni. O anche peggio.
Beh? Perché si ribellano?
Di fronte a tutto questo la preoccupazione occidentale è legittima. La sorpresa no. Lo scandalo ancora meno.
Il processo che ora diventa più che mai evidente, con quest’ultima riunione della SCO, è iniziato da molto tempo. Ed è l’Occidente stesso ad averne alimentato le dinamiche, nella convinzione di poterle volgere a proprio favore. Usando l’omologazione al posto del colonialismo. Ottenendo i conseguenti vantaggi senza alcuna responsabilità né materiale né etica.
Sembrava un ottimo piano: quei Paesi “arretrati” si sarebbero aperti al capitalismo e, insieme ai suoi meccanismi economici, ne avrebbero assorbito anche la forma mentis. Competizione & consumismo. La manipolazione mediatica al posto dell’autoritarismo esplicito. I diritti civili al posto di quelli sociali.
Per parecchi anni il calcolo ha funzionato. O per meglio dire ha soddisfatto le aspettative. Di profitto, innanzitutto. Da un lato si sono aperti dei mercati di sbocco. Dall’altro si sono importati a basso costo sia materie prime che prodotti finiti.
Specialmente nel caso della Cina, però, si è trascurato un aspetto cruciale. Quello che si credeva un addomesticamento privo di rischi si è trasformato in un addestramento a doppio taglio. I cinesi non stavano assorbendo le regole dell’ubbidienza eterna, ma assimilando i principi della futura indipendenza. Lavoravano per l’Occidente, imparavano per loro stessi. Si attenevano alle richieste e acquisivano know-how. Convinti, a ragione, che a un certo punto sarebbero diventati capaci di proseguire per conto loro. Proseguire e migliorare. Migliorare e superare.
Demonizzarli non serve a niente. Invece di rifugiarsi, anche qui, nel classico anatema delle “autarchie”, ci vorrebbero analisi approfondite e veri esami di coscienza. Non siamo puri e incolpevoli, così come non lo sono i nostri avversari. Abbiamo imposto i nostri metodi e si è scatenata una crisi di rigetto.
Le condizioni sono cambiate. Il cambiamento è irreversibile.
Leggi anche:
Ucraina: per Trump è solo una pedina sulla scacchiera globale
Democrazia stile UE. W il popolo, se ci dà ragione
Francia, Germania, Romania: i “fuorilegge” sgraditi alle élite