Di Gerardo Valentini
Tutto come al solito: con due dati confortanti e uno no.
Cominciamo dai primi. Di qua c’è l’ennesima conferma della coalizione di centrodestra, che di volta in volta può dare maggiore o minore rilievo a questa o a quella delle sue tre formazioni principali (FdI, Lega e FI) ma che continua a vincere. Nel caso specifico, come già nell’aprile scorso in Friuli dove Massimiliano Fedriga si impose con il 64,24 dei voti, il candidato presidente Francesco Roberti ha superato la soglia del 60%, attestandosi a quota 62,31.
Di là, invece, c’è l’ulteriore sconfitta dei partiti di opposizione e, in particolare, del PD e del M5S. Che hanno provato a consorziarsi ma senza generare, nemmeno lontanamente, una moltiplicazione dei loro consensi. Il PD ha racimolato il 12,02, il M5S si è fermato al 7,09.
Sui successi del centrodestra non c’è molto da aggiungere: il sodalizio regge bene, sia in Parlamento che in ambito locale, e le divergenze rimangono nei limiti della normale dialettica tra alleati. Anche se non si è d’accordo su tutto, e se ognuno cerca di accrescere il proprio peso in vista delle competizioni future, le finalità comuni prevalgono di gran lunga.
Su dove finisca la consonanza effettiva e dove cominci il calcolo opportunistico si può discutere, ma nel quadro attuale il risultato non cambia. L’assetto odierno è consolidato e mandarlo in pezzi significherebbe fare un salto nel buio.
Meglio condividere una posizione dominante, anziché tornare a doversi inventare una strategia alternativa nel tentativo di raggiungerla. Tanto più che, da soli, sarebbe impensabile riuscirci. Mentre in abbinamento con altri soggetti sorgerebbero nuovi problemi di coesistenza, magari anche più gravi.
Per il PD e il M5S vale il discorso opposto. Sono entrambi incastrati nelle rispettive debolezze e non sanno come uscirne, ma di sicuro la soluzione non può essere quella di legarsi stabilmente l’uno all’altro. Affannati come sono a recuperare almeno un po’ di credibilità agli occhi del proprio elettorato (vero, potenziale, immaginario) hanno il terrore di perdere in identità e in appeal ciò che potrebbero guadagnare riuenendo i loro voti nelle urne.
Insomma: a forza di tradire i proclami precedenti e di subire cocenti sconfitte elettorali, si sono imbottigliati in una contraddizione senza uscita. Per rilanciarsi singolarmente hanno bisogno di accentuare ciò che li caratterizza. Per allearsi devono fare il contrario: attenuare le differenze e schiacciarle in un recinto comune.
L’unico antidoto, forse, potrebbe essere una leadership di eccezionale carisma. Ma a possederla non sono certamente né Elly Schlein né Giuseppe Conte.
Astensionismo: un’infezione che dilaga
In Molise ha votato solo il 47,94 per cento degli elettori. In Friuli era andata persino peggio, con il 45,27, così come in Lombardia, arenata su un misero 41,68, e nel Lazio, sceso addirittura al 37,20.
Sono dati inquietanti. Che non possono essere ignorati e tantomeno rimossi dal dibattito politico e dalla consapevolezza collettiva, adagiandosi sul fatto che non comportano l’annullamento delle consultazioni. Se questo esito disastroso non si produce è solo perché non si applica la medesima norma costituzionale che vale per i referendum e che esige appunto, come requisito di validità, la maggioranza degli aventi diritto.
Ma se questo stesso limite non è stato fissato dalla Costituente è per un motivo molto semplice: una tale disaffezione appariva talmente assurda, in quella fase di nascente democrazia, da non essere contemplata tra le ipotesi possibili.
Oggi, più di 75 anni dopo, l’assurdità è svanita. Erosa dallo screditamento progressivo, e tutt’altro che immotivato, delle elezioni come strumento di affermazione della sovranità popolare. Quando più e quando meno, ma sempre in misura cospicua e decisiva, i programmi elettorali affermano delle cose (delle intenzioni) che poi non trovano riscontro nella realtà.
Vuoi per i vincoli di bilancio, vuoi per le normative UE, vuoi per l’adesione a trattati e organismi internazionali, nonché per la sudditanza oggettiva e interminabile nei confronti degli USA, l’esito concreto è che il governo in carica può decidere ben poco. Il mondo va così e noi ci dobbiamo adeguare. Le locomotive sono altre e noi siamo solo dei vagoni, o dei vagoncini, che vengono trainati dove decidono i capitreno. O i gestori delle ferrovie globali.
Dai e dai, in moltissimi cittadini si è radicato il convincimento che votare sia inutile. Detto in maniera più spiccia, e in rima, “che voto a fare, se fanno comunque come gli pare?”.
No, non sono tutti degli sciocchi velleitari, quelli che la pensano così.
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