Di Gerardo Valentini
L’Austria, la Germania, la Francia, la Repubblica ceca, la Polonia, la Slovacchia, la Svezia, la Danimarca, la Norvegia, la Slovenia. E l’Italia.
Benché con modalità diverse e con una durata differente, questi undici Paesi hanno condiviso il medesimo approccio e assunto iniziative analoghe: di fronte al crescere del rischio di attentati terroristici, sull’onda delle stragi compiute da Hamas due settimane fa e della durissima rappresaglia scatenata da Israele contro la Striscia di Gaza, hanno deciso di ripristinare i controlli alle proprie frontiere. Per evitare, appunto, che l’abituale libertà di movimento possa essere sfruttata dagli integralisti islamici in cerca di vendetta.
A eccezione della Norvegia, gli Stati in questione sono tutti membri a pieno titolo della UE. E tutti, comunque, aderiscono alla “area Schengen”. Nella quale, in base agli Accordi firmati il 14 giugno 1985 ed entrati in vigore dieci anni dopo, per poi estendersi via via a un totale di 27 Paesi, è prevista la libera circolazione di persone, merci e servizi.
Il presupposto è ovvio, ma è bene ricordarlo. Il presupposto è che i controlli doganali non avvengano, all’interno dell’Area, in quanto i movimenti riguardano i cittadini europei e le loro attività. Appartenendo allo stesso ambito politico ed economico, che non è una vera e propria federazione ma che ne anticipa molteplici assetti e un po’ per volta li sta ampliando sempre di più, si ritiene che non ci sia motivo di assoggettarli a continue verifiche a ogni passaggio di frontiera.
Una visione sensata. Ma a patto che quel presupposto non sia dato per scontato. Ritenendolo una verità auto evidente che è acquisita in via definitiva e che, perciò, non ha e non avrà mai bisogno di ulteriori valutazioni.
Al contrario: nel momento in cui determinate situazioni siano mutate, la verifica di quegli assunti diventa obbligatoria. E il mutamento essenziale, in questo caso specifico, è l’arrivo nell’Area di Schengen di un numero enorme di stranieri.
Quali che siano i termini con cui li voglia definire – clandestini, migranti, richiedenti asilo – il dato comune è inequivocabile. Non sono cittadini europei. E qualora lo diventino, come dimostra il diffuso fallimento del modello francese imperniato sull’ideale/dogma dell’assimilazione, in tantissimi di loro il nuovo status non cancella affatto ciò che si portano dentro fin dalla nascita e che li rende assai lontani dalla mentalità occidentale.
Specialmente se, come avviene per un gran numero di arabi e di islamici, la matrice etnica e religiosa è vissuta in modo viscerale.
Troppo ottimismo, per troppo tempo
È vero: gli Accordi di Schengen prevedono la possibilità di sospensioni temporanee. Che infatti sono state disposte in parecchie occasioni. E che in questi giorni, come abbiamo visto, si configurano come una sorta di strategia comune. Ciascun governo agisce in proprio, ma la simultaneità attesta un qualche grado di sintonia. Se non addirittura un coordinamento ufficioso.
È vero, anche, che Ursula von der Leyen sembra essersi convinta che in materia di immigrazione il lassismo del passato debba essere quantomeno attenuato. Dopo ciò che ebbe a dichiarare nella sua visita a Lampedusa di un mese fa, quando fissò dieci punti su cui incardinare il contrasto al fenomeno da parte della UE, ha appena affermato che «alle persone che sono considerate una minaccia per la sicurezza e hanno ricevuto un ordine di rimpatrio attualmente può essere chiesto di andarsene volontariamente: dobbiamo cambiare urgentemente questa situazione».
Sembrerebbero segnali positivi. I bagliori di un possibile ritorno al senso della realtà, dopo la retorica delirante e capziosa dell’accoglienza pressoché indiscriminata.
Per troppo tempo ci si è affidati a un’impostazione accomodante e ottimistica, imperniata sulla certezza che gli immigrati avrebbero finito con l’integrarsi nelle nostre società sino ad assorbirne appieno i sistemi valoriali e gli stili di vita. Adesso si deve prendere atto che ci si è sbagliati, ammesso che si possa parlare di semplici errori. Quelle aspettative sono nulla di più che degli auspici. Nobili in teoria (o in apparenza, perché c’è anche, eccome, chi ci ha speculato sopra, ai più diversi livelli) ma perniciosi all’atto pratico.
Chiaro: ammesso che si tratti davvero dell’avvio di una revisione profonda e definitiva, il processo è appena agli inizi. E di sicuro ci vorranno ancora molta forza e un impegno instancabile per far sì che questi spiragli si allarghino.
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