Di: Gerardo Valentini
Fermatevi ai risultati complessivi del voto tedesco di domenica scorsa, ignorandone la distribuzione geografica, e vi mancherà un dato fondamentale: c’è una fortissima contrapposizione tra i lander dell’Ovest, la ex Repubblica federale, e quelli dell’Est, la ex DDR.
Nei primi ha avuto la meglio la CDU/CSU, che accoppia le due storiche formazioni di ispirazione cristiana. E sorvoliamo su quanto possa esserci di autenticamente religioso in partiti che sono imperniati sulla gestione del potere, ivi inclusi i suoi aspetti più prosaici o addirittura oscuri.
Nei secondi, con l’unica eccezione di Berlino (che ha un territorio assai ridotto ma una popolazione superiore, ad esempio, alla ben più estesa Turingia), ha prevalso nettamente l’AfD. Quella Alternative für Deutschland che troppo spesso, e con una superficialità per nulla casuale, viene accusata di essere “neonazista”.
Anche se poi uno scrittore del calibro di Peter Schneider, che ha tutt’altre simpatie politiche, ha sottolineato quanto ritenga fuori luogo quel genere di etichette: «Io sono molto contrario a dire che quelli di AfD “sono nazisti”, sono contro chi usa queste parole come “nuovo Fascismo”. È un atteggiamento narcisistico odioso tenuto dalla sinistra, che serve solo a celebrare sé stessi come migliori: “Noi siamo gli anti-fascisti”».
Una riflessione che vale, eccome, anche per l’Italia. Dove PD e M5S continuano a cianciare di “pericolo fascista” nel tentativo di regalarsi una nuova autorevolezza, con cui supplire alle troppe giravolte del passato: buttata nel cesso l’antica difesa di operai e ceti meno abbienti, per il PD ex DS ex PDS ex PCI, e abbandonate le originarie invettive anti sistema, per i poveri Cinquestelle in versione Giuseppe Conte.
Ma restiamo in Germania. Dove l’affluenza è stata molto alta, poco sotto l’83 per cento, e dove il verdetto delle urne può trarre in inganno: la temutissima AfD si è fermata al secondo posto mentre il primo è andato alla succitata CDU/CSU. Il che ha aperto la strada all’ennesimo governo di Grosse Koalition, tirando dentro anche gli “utili sconfitti” della SPD, ossia i socialdemocratici di Olaf Scholz.
Tutto sotto controllo, quindi?
Nemmeno per idea.
Facile, con il vento in poppa
Il vero problema della Germania non è quello di mettere insieme una maggioranza parlamentare che sia più o meno in continuità con il passato. Così come il mancato trionfo di AfD non esclude affatto un suo ulteriore e futuro rafforzamento, fino alla conquista del primato assoluto.
L’unica certezza, paradossale, è che le certezze del passato sono svanite. Ne restano le macerie retoriche, ingombranti e difficili da rimuovere, e i vasti intrecci di interessi economici, che i privilegiati vorrebbero conservare mentre gli emarginati smaniano di modificare.
L’enorme differenza, rispetto a ciò che è accaduto finora, è che le linee guida scaturite dalla Seconda guerra mondiale si vanno dissolvendo. E in larga misura lo sono già. La Germania ha goduto di una combinazione straordinaria di vantaggi, che ha via via ampliato con un accorto miscuglio di sagacia e di cinismo.
Uno: nessun problema di difesa militare, grazie alla massiccia presenza di truppe statunitensi sul suolo tedesco.
Due: esportazioni in fortissimo attivo, in linea con la prassi mercantilista che impernia la ricchezza interna sulle vendite all’estero.
Tre: debito pubblico contenuto, con un’ampia disponibilità di fondi per il welfare e altri interventi di sostegno.
Quattro: acquisto di energia a prezzi ridotti dalla Russia e abbattimento, quindi, dei costi di produzione per le industrie.
Questa situazione di grande forza economica, che diventava anche predominio politico nei confronti degli altri Paesi UE, con la parziale eccezione della Francia, ha permesso di largheggiare in materia di immigrazione e di smorzare il risentimento sociale, che specialmente tra i cittadini dell’ex Germania Orientale è sempre stato vivo e col tempo si è fatto più acceso e impaziente di riscatto.
Stavano male quando le cose andavano bene. Figuriamoci adesso che si viene da due anni di recessione e incombe il rischio che se ne aggiunga un terzo.
Dimmi da dove vieni…
Squilibri mai superati e contraddizioni tuttora irrisolte. Che sono diventati più palesi e più pressanti. Da malfunzionamenti periferici a vizi strutturali, che si manifestano in maniera conflittuale e che mettono a repentaglio il normale funzionamento dei meccanismi socio-economici.
Ciò che ci vorrebbe è la capacità, la voglia, la determinazione di ripensare a fondo gli obiettivi e i metodi, le strategie degne di tal nome e le abitudini consolidate, ma spesso cattive e ancora più spesso inique.
Ci vorrebbe un politico nell’accezione più alta del termine, che va molto al di là di un approccio di stampo manageriale. E invece Friedrich Merz, guarda caso, non ha mai avuto ruoli di governo in ambito pubblico, visto che proviene dal mondo finanziario e il suo incarico di maggior spicco è stato quello di “presidente del consiglio di supervisione del ramo tedesco di BlackRock, una delle più importanti società d’investimento al mondo e forse la più potente”.
Certo: metterà dei freni all’immigrazione, sia perché il problema è reale, sia per cercare di togliere agli avversari la loro arma più dirompente, ma il suo orizzonte è rilanciare il modello che già esiste. Adattandolo ai tempi senza danneggiare le oligarchie di riferimento.
E come al solito, nelle pigre “democrazie” europee, elezioni non avrà fatto rima con soluzioni.
Ma con dilazioni.
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