Di Gerardo Valentini
«Il solito cinema.»
Il ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida ha replicato così, alla domanda postagli da Virginia Piccolillo per il Corriere della Sera e inserita nell’intervista pubblicata domenica scorsa: «Lo spread in salita, la Borsa in calo e l’irrigidirsi delle posizioni estere allungano ombre sul governo?».
La domanda, in realtà, era solo la mossa d’apertura. La questione centrale è emersa nel prosieguo. E il succo lo si ritrova nel titolo: «Un governo tecnico? Dopo quello di Meloni ci saranno le elezioni».
Esatto. In democrazia i governi vengono scelti dal popolo, direttamente o indirettamente. Non calati dall’alto, appellandosi a questa o a quella emergenza e dando per scontato che, di fronte alle tempeste che si sono già scatenate o che potrebbero farlo da un momento all’altro, la sola via d’uscita sia ricorrere a procedure eccezionali. Mettendo la democrazia in stand-by.
Basta con il giochino della sovranità popolare, che non ha dato gli esiti voluti dall’establishment economico-finanziario internazionale, e spazio a chi fa sul serio. Ovvero ai cosiddetti “tecnici”. Che proprio in quanto tali vengono presentati/spacciati come i depositari di una competenza asettica e indiscutibile. E che, guarda caso, sono tutti impregnati della medesima visione, acquisita fin dagli studi universitari e poi specializzata nel corso delle loro carriere.
È sufficiente consultare i loro curriculum, per averne la prova. Gli ambiti privati e quelli pubblici si alternano tra di loro nel classico schema delle “sliding doors”, per cui si entra e si esce da un’azienda per entrare in un ambito istituzionale o accademico, e viceversa.
In teoria, ciò dovrebbe attestare che si è talmente bravi da essere all’altezza di qualsiasi compito, dall’insegnamento alla gestione operativa. Vedi Mario Draghi, per limitarci a un solo esempio: docente a Firenze, poi alla Banca Mondiale, dopo ancora direttore generale del Tesoro e via via ai vertici di un gigante bancario come Goldman Sachs, prima di approdare alla guida prima della Banca d’Italia e in seguito della BCE.
Di fatto, è la conferma del fatto che le logiche sono le stesse. E questo ci porta al cuore del problema: sono anche le stesse logiche, con gli stessi valori e gli stessi obiettivi, della comunità nazionale nel suo insieme?
Competenti sì. Servi no
L’approccio liberista è noto: i mercati si regolano da soli. E il principale compito della politica è non interferire, limitandosi a garantire un quadro normativo, e sociale, che assecondi la competizione economica. Al resto, oplà, provvede la famosa (o famigerata) “mano invisibile” di Adam Smith, per cui gli egoismi individuali finirebbero con il determinare, al di là delle loro stesse intenzioni, un beneficio generale.
Noi la vediamo diversamente. La chiave di volta non è che l’economia decide e la politica si adegua, in uno stato di permanente e insormontabile subordinazione. La prospettiva, stando bene attenti a non sconfinare nelle rigidità burocratiche dello statalismo, è che l’economia deve essere al servizio di finalità prettamente politiche. Nel senso, semmai ci fosse bisogno di chiarirlo, del miglioramento delle condizioni di vita della popolazione nel suo complesso. E non certo di un asservimento delle imprese etc. alle mire e ai privilegi dei politici di professione.
La politica, dunque, deve senza dubbio tenere conto delle dinamiche economiche, a cominciare da quelle dominanti, e per farlo ha l’assoluta necessità di comprenderne a fondo le caratteristiche. Dalle premesse alle finalità, transitando per i metodi. O per i trucchi.
La vera natura della competenza è questa. E non va affatto confusa con l’adesione, acritica, a quelle concezioni che pure sono prevalenti. O persino così diffuse, e affermate, e potenti, da apparire “le uniche e le sole”.
Una politica molto, molto più ampia
L’enorme problema, che dal secondo dopoguerra in poi è diventato sempre più radicato e invasivo, è che l’economia è degenerata in economicismo.
Una pseudo scienza che dà per scontati certi presupposti e che, su di essi, costruisce un immane edificio di congetture travestite da conclusioni oggettive e appunto “scientifiche”. Un totem, quanto mai artificioso, al quale gli esseri umani sono chiamati a sottomettersi. Non solo perché non possono fare altrimenti, ma addirittura con fervore.
Oggi, finalmente, a Palazzo Chigi abbiamo un governo politico. Che hanno voluto gli italiani e che deve governare per tutta la legislatura.
Il suo compito non è solo gestire i problemi correnti, accontentandosi di coesistere senza troppe tensioni con lo status quo di Washington o di Bruxelles (e di Francoforte). Non è vivacchiare evitando il peggio.
La sua missione – missione in italiano, non “mission” in inglese – è programmare il futuro del Paese con quella visione di società che vogliamo essere. Amministrare bene non è mai solo un fatto tecnico. Perché non lo è la vita: sia di ogni singolo individuo, sia di un intero popolo.
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