Di Gerardo Valentini
Un altro vertice, l’ennesimo, in svolgimento tra oggi e domani. Questa volta a Granada e sdoppiato in due fasi, ossia a due livelli diversi di organizzazione e confronto. Prima la neonata “Comunità politica europea” e poi il “Consiglio Europeo informale”.
All’origine le questioni sul tappeto erano quattro – multilateralismo, energia, digitale e Intelligenza artificiale – ma sull’onda degli innumerevoli sbarchi di persone in fuga dall’Africa si è aggiunta quella dei migranti. Assumendo, anzi, un rilievo centrale.
I lavori si aprono oggi con le attività della “Comunità politica europea”, il nuovo consesso istituito nell’ottobre dell’anno scorso e allargato, accanto ai 27 membri della UE, ad altre 18 nazioni. Che sono a loro volta europee, a cominciare dalla Gran Bretagna, o con cui ci sono particolari legami, come l’Azerbaigian.
Domani, invece, sarà la volta del “Consiglio Europeo informale”. Laddove quest’ultimo termine, “informale”, la dice lunga su come questo ulteriore incontro sia soltanto una tappa all’interno di un percorso che è tuttora in via di definizione. E su cui grava, nel modo più pesante, l’eterno dissidio tra gli interessi di parte e il vagheggiato, per non dire ipocrita, “bene comune”.
Riguardo all’immigrazione, in particolare, il ginepraio appare pressoché inestricabile. Dietro le grandi discussioni di principio, imperniate su valori altisonanti come l’accoglienza e il diritto di asilo, si muovono, e si scontrano, le ripercussioni quanto mai concrete dell’impatto sociale ed economico generato da questi flussi che si succedono a getto continuo.
A proposito: un gravissimo errore, ammesso e non concesso che si tratti di un semplice errore e non di una mistificazione deliberata, è concentrarsi sui dati dei singoli periodi, come se il nocciolo della questione fosse l’andamento del fenomeno rispetto al passato.
La verità è un’altra. È che le cifre dei nuovi arrivi non vanno solo paragonate a quelle precedenti.
Vanno sommate.
Meno retorica, più buon senso
L’ultimo scontro, com’è noto, è quello tra Italia e Germania riguardo alle Ong.
Berlino ne rivendicava il ruolo, spingendosi a finanziarle con risorse pubbliche e premendo affinché ne venisse sancita la massima libertà d’azione, quand’anche in contrasto con le esigenze degli Stati in cui i profughi vengono sbarcati.
Roma, assai giustamente, ha reagito con una levata di scudi. Per dirla con le parole di Giorgia Meloni, «Non si può fare solidarietà con i confini degli altri». Il che si salda, peraltro, con ciò che aveva sottolineato a Lampedusa pochi giorni fa, in occasione della visita sull’isola di Ursula von der Leyen: «Non considero questa visita un gesto di solidarietà dell’Europa verso l’Italia, ma piuttosto un gesto di responsabilità dell’Europa verso sé stessa. Perché questi sono i confini dell’Italia, ma sono anche i confini dell’Europa».
La levata di scudi è servita. La Germania è scesa a più miti consigli e la sua pretesa, assurda, è stata rimossa dalla bozza del testo comunitario al quale si sta tuttora lavorando.
Un punto chiave, citando dalla sintesi dell’Agi, è che “il documento definisce il quadro d’azione per gli Stati nell’affrontare scenari di difficoltà e crisi, adeguando alcune regole, come quelle relative alla registrazione delle domande di asilo o alla procedura di asilo alla frontiera, e dando ai Paesi sotto pressione la possibilità di richiedere misure di solidarietà e sostegno all’Ue e ai suoi Stati membri”.
A sua volta, nella giornata di martedì scorso, il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, aveva dichiarato che «lo stato di diritto vale per tutti, anche per le Ong. Non permettiamo ai trafficanti di decidere chi è autorizzato a venire nell’Ue. Solo le autorità hanno la legittimità democratica di decidere in linea con le convenzioni e il diritto internazionali. Infine dobbiamo cooperare con i Paesi terzi per aprire canali legali di ingresso».
Un percorso tutt’altro che concluso
Lo sappiamo benissimo: sulle decisioni politiche della UE, ovvero sull’effettiva volontà di superare gli egoismi di parte, è sempre meglio non farsi troppe illusioni. Inoltre, quanto allo “stato di diritto” invocato da Michel, l’espressione può sembrare conclusiva e perentoria ma non lo è.
Di che diritto parliamo, esattamente?
La tentazione, ingenua, è di identificarlo con le leggi dei singoli Stati e quindi, nel caso specifico, con quelle italiane che mirano a contenere l’immigrazione entro limiti ragionevoli. E filtrando gli accessi con criteri selettivi sensati.
Il dato di fatto è che le normative nazionali sono sempre più subordinate a quelle comunitarie. Ciò che per noi è un’emergenza ricorrente e un problema drammatico, visto da lontano diventa una rogna altrui. Alla quale sfuggire il più possibile.
Nessun dubbio: il nostro governo dovrà battagliare ancora a lungo. L’aspetto positivo è che ha dimostrato di volerlo fare.
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