Di Gerardo Valentini
Il documento è ufficiale: il Rapporto Prove INVALSI 2023. E INVALSI, per chi non lo sapesse, è l’acronimo di “Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e di formazione”. Vale a dire, l’ente di ricerca che ha il compito di analizzare i risultati della scuola italiana.
Che quei risultati non siano lusinghieri è ampiamente risaputo. Ma le percezioni generali tendono anche a essere generiche, per cui è sempre meglio consultare i dati oggettivi. Che in questo caso, riguardo all’ultimo anno scolastico, vengono sintetizzati come segue.
“Considerando il Paese nel suo complesso senza distinzioni in base agli indirizzi di studio, si può affermare che solo poco più della metà delle studentesse e degli studenti raggiunge almeno il livello 3 in Italiano (50,7%), ovvero il livello che rappresenta gli esiti in linea con gli aspetti essenziali previsti dalle Indicazioni nazionali.”
Se la percentuale non è bastata ad allarmarvi, proviamo a dirlo in parole: al termine delle superiori quasi uno studente su due non conosce l’italiano quanto dovrebbe. Su una scala di cinque gradi, il terzo dei quali corrisponde alla sufficienza, il 23,6 si ferma al primo e il 25,7 al secondo.
Le rispettive “abilità”, nel succitato Rapporto, sono descritte in modo alquanto asettico e sin troppo cauto, ma la sostanza non cambia. Raggiunta la maggiore età, un numero enorme di giovani non è in grado di comprendere a fondo ciò che legge. Ammesso che riesca a farsene un’idea di massima, grazie a un’esposizione molto chiara e a un linguaggio semplificato, non arriva a cogliere le implicazioni che non siano di tutta evidenza.
In pratica, capisce solo un po’.
Quel po’ che non basta, per capire davvero.
Alla larga dagli alibi
Sui motivi per cui si è determinata questa situazione si può lungamente discutere. E qui non c’è neanche lontanamente lo spazio necessario a un esame approfondito.
Limitiamoci, allora, a ricordare un paio delle questioni principali.
Uno: l’autonomia scolastica, introdotta dalla legge n. 59/1997 (riforma Bassanini), prevede che le risorse pubbliche percepite dai singoli istituti dipendano dall’ammontare degli iscritti, spingendo perciò a rendersi attrattivi agli occhi delle famiglie. In teoria, si dovrebbe puntare sulla qualità dell’insegnamento. Di fatto, troppo spesso, si fa leva sulle scarse probabilità di essere bocciati.
Due: la selezione dei professori e dei maestri è imperniata assai più sulla conoscenza delle rispettive materie che sulla capacità, o almeno l’attitudine, necessaria a trasferire quel sapere agli studenti.
Un errore decisivo. Così come nello sport un ottimo atleta può non essere affatto un bravo allenatore, nella scuola chi è esperto di una determinata disciplina può non avere le doti per diventare un bravo docente. Tanto più che, nel caso di quegli individui in via di sviluppo che sono gli studenti dalle elementari sino al termine delle superiori, la preparazione specifica e di stampo accademico deve saldarsi alla crescita psichica e relazionale.
Al di là delle cause, però, vanno fissati due punti fermi.
Il primo è che certe carenze esistono e sono tanto gravi quanto diffuse. A proposito: le indicazioni del Rapporto INVALSI che abbiamo riportato in apertura si riferiscono all’italiano, ma sono quasi identiche per la matematica e solo leggermente migliori per l’inglese. E se è vero che ci sono grandi e radicate differenze tra le diverse zone e a scapito del Sud, configurando “un Paese a due velocità, se non talvolta a tre”, le criticità si trovano ovunque e non ci si può certo adagiare sulla magra consolazione che altrove vada peggio.
Il secondo punto fermo, ancora più importante e di per sé lapalissiano, è che un quadro tanto deficitario non deve essere nascosto dietro delle promozioni elargite “a prescindere”.
Per le elementari e le medie inferiori possono valere altri criteri, nella chiave di un rapporto non troppo esigente e quindi non conflittuale. Ma alle superiori, e più che mai al termine del percorso, è indispensabile che i voti rispecchino il livello effettivamente raggiunto: incentivare gli sforzi di chi si dà da fare è giusto, spianare la strada agli svogliati non lo è per niente.
Da un lato si ingannano loro. Dall’altro si danneggia l’intera comunità nazionale. Una debolezza che dalla scuola si propaga a ogni altro ambito sociale, dal mondo del lavoro alle vicende della politica.
Lo abbiamo visto: uno studente su due esce dalle superiori (e sorvoliamo su quelli che non arrivano neanche a questo traguardo) senza essere in grado di afferrare a fondo il senso di ciò che legge. Una difficoltà che non si esaurisce nella scarsa comprensione di quelle parole ma che con ogni probabilità terrà lontani da qualsiasi testo che sia, o appaia, impegnativo. A cominciare dai libri.
Una miriade di cittadini disinformati. Una miriade di cittadini manipolabili.
Il contrario di ciò di cui ha bisogno una democrazia degna di tal nome.
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