Un’altra Europa: senza la poltiglia progressista

Di Gerardo Valentini

Un appello. Addirittura. E siccome lo hanno lanciato dalla capitale della Francia, si è subito fregiato della relativa denominazione: “l’appello di Parigi“. 

La dicitura è altisonante, la sostanza è torbida. 

La sostanza, si fa per dire, è che a sinistra sono preoccupatissimi dall’esito delle Europee dell’8 e 9 giugno. Non solo per ciò che emergerà dalle urne in termini di percentuali ottenute dai singoli partiti, ma per le ripercussioni che ne potrebbero derivare. Sia sul Parlamento di Strasburgo sia, anzi soprattutto, sulla Commissione di Bruxelles.

L’allarme parte dai sondaggi, compresi gli ultimi, e si salda ai segnali di una possibile apertura a nuove alleanze da parte del gruppo di maggioranza relativa, che è quello dei Popolari del PPE. Interrogata sull’eventualità che ciò accada Ursula von der Leyen, che è l’attuale presidente della Commissione e che fa appunto capo al PPE, si è tenuta sulle generali e ha dato una risposta elementare. 

«Dipende molto dalla composizione del prossimo parlamento, e da chi vi farà parte.»

Lapalissiano, si direbbe. La Commissione è un organismo di governo ed è naturale che rifletta le indicazioni del voto. 

Invece no. I progressisti l’hanno presa malissimo e sono insorti. La pur vaga disponibilità espressa dalla von der Leyen è bastata a farli gridare al tradimento: «È pregata di chiarire – ha tuonato il socialista lussemburghese Nicolas Schmit, Commissario europeo per l’occupazione, gli affari sociali e l’integrazione – lavorare con l’estrema destra andrebbe contro ciò per cui ha lavorato questa Commissione».

Il succitato Appello-di-Parigi l’ha seguito a ruota. Agitando il medesimo spauracchio e scodellando una specie di slogan: in Europa bisogna costruire “una diga robusta contro l’estrema destra”.

Politica con la P maiuscola

È il solito eccesso di retorica e di enfasi. Ma dietro le esagerazioni capziose c’è del vero. Con la cospicua e decisiva differenza, però, che i loro timori sono le nostre speranze.

Cosa potrebbe succedere, infatti, se vincessero davvero i partiti di destra? E se l’asse dell’Unione Europea, e soprattutto della Commissione UE che ne è il centro operativo, si spostasse verso valori diversi da quelli attuali?

Già: valori. Nel senso più pieno e vitale del termine. Ideale per un verso. Quanto mai concreto per l’altro. 

Oggi, e già da troppo tempo, ci viene fatto credere che governare significhi solo, o in massima parte, prendere delle decisioni sulle singole materie. Come se le linee guida fossero ormai stabilite una volta per sempre e tutto, quindi, si riducesse in fondo a una questione “tecnica” da affidare agli esperti dei vari rami, a cominciare da quello economico-finanziario. 

Non è così.

La politica non è affatto tenuta ad appiattirsi sulla gestione dell’esistente. Finendo con il perpetuarne, o esasperarne, le direttrici già acquisite. 

La Politica migliore, quella con la P maiuscola, ha il compito di forgiare delle scelte di più alto profilo. Perché sono proprio loro a incidere di più, determinando il tipo di vita che facciamo nella realtà. Giorno per giorno. Per tutta la durata della nostra esistenza.

Nessun copyright, sulla democrazia

Giorgia Meloni, nel suo recentissimo intervento alla manifestazione “Europa Viva 24” organizzata da Vox e svoltasi a Madrid, lo ha detto con grande chiarezza. Nell’ambito di un intervento che merita di essere letto da cima a fondo.

«Contrasteremo soprattutto chi, come la sinistra, accecato dal desiderio di cancellare le identità, intende usare Bruxelles per imporre la sua agenda globalista e nichilista, dove le nazioni sono ridotte a incidenti della storia, le persone a meri consumatori, dove multiculturalismo e relativismo etico sono spacciati come i pilastri necessari dell’integrazione europea.» 

È questa, la vera posta in gioco. Ed è questo ciò che inquieta di più i progressisti. Persino più della perdita del ruolo di vertice a cui si sono talmente abituati da ritenere impensabile che quella supremazia possa finire, spazzata via dal voto dei cittadini.

Se si trattasse soltanto di “saltare un giro” nell’esercizio del potere amministrativo non sarebbe poi così grave: un intervallo momentaneo che nel medio e lungo termine non compromette nulla. Cambiano gli attori ma non il copione. Non il nucleo fondamentale dell’intera messinscena.

Quello che si prospetta ora, invece, è un ripensamento molto più profondo da parte di tantissimi europei. Adesso, finalmente, inizia a emergere la verità: la democrazia non è solo il pacchetto monoblocco e a senso unico che viene strombazzato dai Walter Veltroni di ieri e dalle Elly Schlein di oggi. 

La democrazia è il coinvolgimento del popolo nelle decisioni che lo riguardano. E molto prima di qualsiasi decisione specifica ci sono i valori in cui quel popolo crede.  

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