Di: Gerardo Valentini
Questo hanno e a questo si avvinghiano. Anche se l’idea non è un granché e a tutt’oggi rimane assai di più un’ipotesi astratta che un progetto concreto. Difficile e occasionale nelle elezioni locali. Ancora più remota in ambito nazionale.
L’idea (il feticcio) è il famigerato “campo largo”. Che ormai si trascina da una quindicina d’anni, come tentativo di replicare il successo dell’Ulivo capitanato da Romano Prodi, e che il PD si ostina a sbandierare come la chiave di volta per battere l’odiato centrodestra.
Con il solito brutto vizio, però, di esaltare solo l’obiettivo trascurando i tantissimi fattori che ne ostacolano il raggiungimento. Confondendo le somme a tavolino con le intese effettive. Le preferenze e i desideri con la possibilità di realizzarli davvero.
Vinte le Comunali a Genova, la grancassa è ripartita a tutta forza. Titoloni della stampa amica e dichiarazioni gongolanti dei capintesta.
Nella stessa giornata del 27 maggio Repubblica apriva con un trionfalistico “Vince il centrosinistra unito”, La Stampa se la cavava con un meno enfatico “Salis rianima il campo largo”, e Domani si librava nella stratosfera dei sogni, proclamando che “il campo largo stravince”.
A sua volta, sempre il 27, in un’intervista al Corriere della Sera Francesco Boccia, capogruppo del PD al Senato, saltava alle conclusioni: «Questo ormai è un dato chiaro e inequivocabile: se le opposizioni si uniscono attorno a un progetto condiviso e a un candidato credibile vincono. E Genova lo dimostra. Quando Elly Schlein, dopo il congresso che l’ha eletta, ha insistito sull’essere “testardamente unitari” intendeva proprio questo».
Nelle intenzioni dovrebbe suonare come un’analisi. Di fatto è propaganda spinta, che minimizza ciò che invece è il cuore della questione. Quei due “se” che Boccia elenca di sfuggita e che al contrario sono altrettanti macigni ben lungi dall’essere rimossi, in vista delle Politiche del 2027.
Primo: un progetto condiviso.
Secondo: un candidato credibile.
Chi ha voglia di fare il gioco del PD?
All’esterno Elly Schlein & C. la possono infiocchettare a piacimento, presentandosi come i paladini delle grandi battaglie ideali e sperando che molti elettori tornino ad abboccare.
Con le loro controparti dell’opposizione (o meglio: della cosiddetta opposizione, che dà per scontata una sostanziale affinità tra tutti i partiti che non rientrano nella coalizione di governo) la partita è ben diversa. Furbetti gli uni, smaliziati gli altri.
Il PD ha il passato che ha e solo i fessi possono credere che le sue tante ambiguità si siano dissolte in una palingenesi etica, prima ancora che politica. Tale passato, inoltre, va riconnesso sia alle sue versioni precedenti, sia a certi aspetti del vecchio PCI: ovviamente non in senso ideologico, visto che del marxismo originario non sopravvive alcunché, ma riguardo alla gestione di vasti apparati collaterali, imperniati su enormi intrecci di interessi.
Manco a dirlo, la stessa Schlein fa finta che tutto questo non esista e addirittura lo ribalta. Atteggiandosi ad angioletto disinteressato, al vertice di un consesso di cherubini suoi pari, afferma che «noi, al contrario della destra che sta insieme per il potere — guardi quante se ne sono date e dette in Consiglio dei ministri sul terzo mandato per i presidenti di Regione, eppure stanno ancora lì — noi invece ci alleiamo per le cose da fare insieme per gli italiani, una bella differenza».
Insomma: il PD è una nobile confraternita che ha a cuore soltanto e unicamente il benessere dei cittadini.
Un “dettaglio” decisivo: il leader
Rappresentarsi così è facilissimo, finché hai davanti un giornalista compiacente che si limita a trascrivere ciò che dichiari. Ma figuriamoci se lo si può far credere alle vecchie e nuove volpi con cui in teoria ci si dovrebbe alleare, da Giuseppe Conte a Matteo Renzi, e da Calenda a Fratoianni e a Bonino.
Loro lo sanno benissimo, che cos’è realmente il PD. E di sicuro non ignorano il rischio di perdere identità e appeal elettorale, mettendosi nell’orbita di un partito molto più forte e a vocazione maggioritaria.
In teoria, alleati “con pari dignità”. In pratica, portatori d’acqua al mulino altrui.
I più piccoli si potranno anche adeguare, consci che siano meglio le briciole del digiuno totale. Ma non è nemmeno un criterio assoluto, perché poi ci sono da mettere in conto le personalità specifiche: quelli che hanno un rapporto inversamente proporzionale, vedi i succitati Renzi e Calenda, tra la modestia dei voti raccolti e la grandiosità delle ambizioni coltivate.
E soprattutto, a complicare ulteriormente la trasformazione in realtà del vagheggiato campo largo, c’è Giuseppe Conte.
Che cosa aveva detto, Francesco Boccia? Un “candidato credibile”.
Ma se in sede locale lo si può trovare anche fuori dai partiti, come infatti è avvenuto nel caso della neo sindaca di Genova, Silvia Salis, a livello nazionale è molto più difficile. Per non dire impossibile.
Di un nuovo Romano Prodi non c’è traccia. E almeno per ora non c’è da scommettere un euro, sull’eventualità che il capo del M5S si faccia da parte per cedere il passo a Elly Schlein.
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