Di: Gerardo Valentini
Detto in maniera spiccia: un sacco di reati. Concentrati soprattutto, ma non solo, in due città della massima importanza come Roma e Milano. Di qua la Capitale vera e propria, in senso politico, e di là la capitale produttiva. O addirittura “morale”, secondo una vecchissima definizione che ha l’attenuante di risalire alla fine dell’Ottocento.
Qualche dato? Eccolo.
Nel 2023, come sintetizzato nel settembre scorso dal Sole 24Ore sulla base delle cifre fornite dal Ministero dell’Interno, al primo posto c’erano Milano e provincia. Le denunce assommavano a ben 230.394, con un rapporto di 7.093,9 per 100mila abitanti e un’incidenza del capoluogo pari al 63%.
Subito dietro si piazzava Roma. Con un numero superiore di denunce (256.832) ma un rapporto un po’ meno gravoso rispetto agli abitanti, (6.071,3 per 100mila) a cui però si affiancava un maggior peso del capoluogo (80%).
Non solo: la tendenza risulta tuttora in crescita rispetto agli ultimi anni e, quel che è peggio, non esiste alcun motivo di credere che in futuro ci possa essere un’inversione di rotta.
Tutto il contrario, anzi. Perché ciò che ha portato alla gravissima situazione attuale è l’intreccio di fattori tanto evidenti quanto sottovalutati, per non dire ignorati. Fattori che sono accomunati da un sostanziale fatalismo – mascherato dalla dolente accettazione di taluni aspetti negativi insiti nel nostro indiscutibile modello di sviluppo – e che chiamano in causa le classi dirigenti che hanno assecondato queste dinamiche.
A cominciare, si intende, dai politici di professione. A proposito dei quali non ci si può non chiedere se si tratti solo della “banale” acquiescenza degli opportunisti in carriera o si sprofondi nell’adesione consapevole ai piani di chi mira a trarre vantaggio dai fenomeni in corso.
Diagnosi mancate, misure inconcludenti
È una malattia sociale, quella di cui parliamo?
Certo che lo è. Una malattia radicata, persistente e, come abbiamo visto, in via di aggravamento.
Il primo passo è persino ovvio. È identificarne le cause. Che senza dubbio sono molteplici e intricate, ma non per questo sono impossibili da fissare.
Che cosa accade, invece? Che ci si rifugia nel più classico degli alibi: l’ineluttabile. Ossia l’idea, ipocrita o comunque vigliacca, che certe forme di degrado sociale siano pressoché inevitabili, poiché rientrano in processi troppo ampi e complessi per poterli evitare.
Vedi, per citarne solo uno, l’immigrazione di massa che con la scusa dell’accoglienza e dell’asilo ai “rifugiati” ha consentito l’ingresso e la permanenza sia di delinquenti più o meno occasionali, sia di autentiche gang come la mafia nigeriana.
La conseguenza è altrettanto subdola. Gli interventi adottati, sia repressivi che di altro tipo, rinunciano a priori a eliminare i problemi. Accontentandosi di fare “il possibile”. Limitandosi, specie in ambito penale, ad applicare le norme esistenti, a prescindere dalla loro concreta efficacia nel sanzionare i delinquenti già all’opera e nell’agire da deterrente per quelli che li volessero imitare.
Al primo alibi se ne aggiunge un secondo: ci siamo attenuti alle leggi, che altro potevamo fare?
Lampante: ripensare l’intero sistema giudiziario, affinché lo “Stato di diritto” non sconfini, e non degeneri, nella “società dell’impunità”. Quando uno strumento non assicura gli obiettivi prefissati lo si riconsidera. Lo si aggiorna. Lo si cambia.
Tutte le volte che serve, fintanto che non raggiunga lo scopo.
La cosiddetta “microcriminalità”
Corretta in linea di principio. Ma fuorviante all’atto pratico.
La definizione di “microcriminalità”, che serve a distinguerla da quella più strutturata e sistematica del crimine organizzato, finisce col far dimenticare che la sua pericolosità è tutt’altro che trascurabile. “Micro” di nome, ma non di fatto.
Per chi ci incappa in prima persona, dalle risse alle rapine e addirittura agli stupri (come quello che è accaduto poche settimane fa qui a Roma e in una zona tutt’altro che periferica come Porta Pia), l’impatto non è lieve per niente. Come non lo è, nonostante la mancanza di danni fisici, ritrovarsi con la casa svaligiata.
Inoltre, per chi non voglia smettere di credere in un assetto davvero civile e fondamentalmente comunitario, è impensabile che ci siano delle aree “off limits”. Dalle piazze di spaccio, che pur essendo arcinote continuano imperterrite a smerciare droga e ad arricchire chi vi si dedica, alle situazioni di degrado così diffuso e virulento da mettere a repentaglio l’incolumità dei cittadini onesti che vi si dovessero recare in maniera deliberata. Oppure, non sia mai, capitarci per sbaglio.
La realtà è questa. E l’approccio delle autorità non può esaurirsi in un’attività di mero contenimento. Della serie: sì, va male, ma potrebbe andare ancora peggio.
Sono guasti profondi e di sicuro non si risolveranno da un giorno all’altro. Ma gli obiettivi di lungo periodo vanno innestati su una strategia complessiva, che sia capace allo stesso tempo di incidere sul presente e di proiettarsi nel futuro.
La cronaca nera non deve trasformarsi in cronica nera.
Leggi anche:
Carceri stracolme. Ma i criminali vanno perseguiti
Censis 2023: siamo un Paese fiacco e demotivato…
Segnatevi il neologismo: i “rifugisti”. Quelli con il feticcio dei migranti