Di Gerardo Valentini
Tecnicamente è un’analisi. Un’analisi in chiave prettamente economica e sviluppata in centinaia di pagine, intessute di dati su ciò che è già avvenuto e di proposte su quello che andrebbe fatto per trovare nuovo slancio.
L’alternativa, tanto subdola nel suo snodarsi a poco a poco quanto disastrosa negli esiti a lungo termine, è continuare nella stessa direzione. O nella stessa “non direzione”. Nel medesimo accontentarsi di tirare avanti da un giorno all’altro, da un’elezione all’altra, confidando che certi assetti mondiali siano destinati a rimanere più o meno costanti nei secoli dei secoli. Amen.
Un abbaglio fatale.
Perché il mondo, al contrario, è in pieno cambiamento. E come sottolinea Mario Draghi, nel presentare il suo ampio e approfondito Rapporto sul futuro della competitività europea, l’Europa deve cambiare a sua volta. Per evitare di consegnarsi a «una lunga agonia».
Come ci si riesce?
Draghi identifica dieci ambiti di intervento e indica cinque strumenti operativi.
I primi sono riuniti sotto la dicitura di “politiche settoriali”: Energia, Materie prime critiche, Digitalizzazione e tecnologie avanzate, Industrie ad alta intensità energetica, Tecnologie pulite, Automotive, Difesa, Spazio, Farmaceutica, Trasporto.
I secondi vanno a formare le “Politiche orizzontali”: accelerare l’innovazione, colmare il divario di competenze, sostenere gli investimenti, rinnovamento della concorrenza e infine (ma in realtà è il cardine di tutti gli altri) rafforzare la governance.
Draghi, che ha svolto la massima parte del suo percorso professionale nel campo finanziario, espone tutto questo con la freddezza di un tecnico. Le questioni che egli pone, però, sono essenzialmente politiche.
E il paradosso è proprio questo: per rilanciare l’economia ci vuole più politica. Più visione sociale. Più capacità di immaginarsi gli scenari futuri e di individuare in anticipo le relative soluzioni.
La perdita di competitività smaschera i decenni e decenni di pigrizia e di opportunismo. Attestando il degrado dei politici-executive che si sono illusi di poter esaurire le proprie funzioni nell’assecondare certi processi e certi potentati.
Scuotersi. E rialzare la testa
La verità è un’altra.
È che inchinarsi non è più sufficiente. Persino per essere subalterni bisogna impegnarsi in scelte risolute e coraggiose. Dalla UE paravento, che si atteggia a baluardo etico dell’intero pianeta e poi perpetua i peggiori egoismi dei singoli Stati, si deve passare a un’Europa a viso aperto: che afferma con ben altra chiarezza i suoi sì e i suoi no. Ancorando entrambi alle loro effettive possibilità di realizzazione.
La necessità, ogni giorno più urgente, è trasformarsi in un soggetto attivo e autonomo, se non addirittura in un protagonista assoluto. Una potenza continentale che non dia affatto per scontato che i propri interessi coincidano con quelli degli USA, ma che riconosca la brutalità della competizione planetaria. E che perciò anteponga le esigenze concrete alle dichiarazioni di principio. Liberandosi, finalmente, della retorica sui diritti universali e del mito dell’accoglienza pressoché indiscriminata.
Draghi fornisce la sua ricetta. Che al di là di tutte le altre indicazioni specifiche, impossibili da riassumere in poche righe, si basa su due elementi essenziali: accrescere gli investimenti complessivi della cifra-monstre di 800 miliardi annui, attraverso forme di indebitamento collettivo quali gli eurobond, e snellire/accelerare le procedure decisionali, superando l’attuale barriera dell’approvazione all’unanimità in favore di un voto a maggioranza qualificata.
Due innovazioni sensate. Ma che non per questo vanno accettate a scatola chiusa. Specialmente per quanto riguarda la seconda.
Il pericolo woke
Lo abbiamo appena visto con le Europee. Il voto popolare manifesta forti spinte al cambiamento e le classi dirigenti fanno di tutto per neutralizzarlo. Agitando i consueti spauracchi del sovranismo, o addirittura del rinascente “fascismo”, allo scopo di demonizzare chi non si allinea alle versioni dominanti. Che sono sempre più impregnate della cosiddetta cultura woke.
In questa situazione, quindi, dare maggior peso a chi ce l’ha oggi, ovvero l’asse tra PPE e PSE, significa moltiplicarne il potere di condizionamento. Spianando la strada a imposizioni generali che sono in contrasto con la volontà dei singoli popoli.
Il passaggio dall’unanimità al voto a maggioranza va riservato, viceversa, ad alcune questioni. Che certo vanno ponderate con estrema attenzione anche in ambito economico, ma che di sicuro non possono estendersi alla sfera valoriale.
Il tentativo in corso, e non da oggi, è affermare l’idea (il dogma) che l’unica democrazia possibile sia quella in chiave progressista. Kamala Harris negli USA, Keir Starmer in Inghilterra, Elly Schlein qui in Italia.
L’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è facilitargli il compito.
Leggi anche:
UE. Ma quanto sono vecchi, i Trattati del passato?