Di: Gerardo Valentini
Imperterrito. Impermeabile all’evidenza politica che è sotto gli occhi di tutti: lui, monsieur le President, non è più sostenuto né dal Parlamento né tantomeno dai cittadini. Una perdita di consenso che non ha nulla di occasionale ma che, all’opposto, è talmente estesa e motivata da essere definitiva e irreversibile.
Il più elementare rispetto per la democrazia – quella sostanziale, che va ben al di là delle interpretazioni letterali delle norme e delle sempre più esauste messinscene elettorali – dovrebbe indurlo a prendere atto della situazione e a rassegnare le dimissioni.
Lui cosa fa, invece?
Si arrocca nei suoi poteri costituzionali, che in una repubblica semipresidenziale come la Francia sono particolarmente ampi, e tira dritto per la sua strada. Ovvero per la sua scorciatoia: una falsa e spocchiosa autocelebrazione per cui il comando assoluto spetta a lui e gli altri vi si devono sottomettere. Che gli piaccia o no. Che siano d’accordo oppure no.
Lunedì scorso il primo ministro uscente, François Bayrou, viene annichilito da un voto di sfiducia dalle proporzioni umilianti (364 a 194) e già l’indomani viene piazzato al suo posto un fedelissimo come Sébastien Lecornu. Della serie: chissenefrega di voi e degli elettori che rappresentate. Mio è il potere di nomina e io lo esercito a mia totale discrezione. A mio totale piacimento.
Da capo dello Stato, ma al servizio della nazione, a despota di fatto, determinato ad asservire la nazione intera ai suoi disegni. “Suoi”, beninteso, o piuttosto dei potentati che ne hanno favorito l’ascesa. E ai quali, fatalmente, continua a essere legato.
Le prerogative si trasformano in privilegi. Le regole in ragnatele.
Se accadesse altrove si parlerebbe di un autocrate fuori controllo. Qui ci si rifugia nei rimproveri a scartamento ridotto: sì, non dovrebbe farlo; certo, sarebbe meglio di no; ma in fondo, suvvia, non c’è nulla di propriamente illegale.
Mica lo scopriamo adesso: le democrazie, si sa, sono organismi imperfetti.
Un disastro largamente annunciato
La debolezza di Macron, in realtà, non comincia affatto oggi. Né in questi ultimi mesi.
La sua stessa riconferma nel 2022 fu un tipico pasticcio (un tipico obbrobrio) del sistema francese a doppio turno. Di fronte al timore di una vittoria di Marine Le Pen, leader del Rassemblement National e in continua crescita, Macron mise insieme l’ennesimo schieramento raccogliticcio e “ad personam”. Il cui unico collante era appunto l’avversione nei confronti della, cosiddetta, estrema destra.
Una fragilità che pochi mesi dopo fu ribadita dalle elezioni legislative del luglio successivo, quando i tre partiti che lo sostenevano non andarono oltre la maggioranza relativa dei seggi. Risultato: il governo nascente, al pari di quelli che in seguito lo hanno sostituito, era privo di una adeguata garanzia di autosufficienza.
Poteva vivacchiare. Poteva crepare.
È crepato a ripetizione, per poi tentare di risorgere dalle proprie ceneri.
La verità lampante, dunque, è che la permanenza di Macron all’Eliseo poggia ormai su un fondamento solo formale, privo di un’autentica legittimazione. Al vertice della Francia c’è un uomo che la Francia non vuole. Ma di cui non ha modo di liberarsi attraverso le normali procedure istituzionali.
Bloquons tout, blocchiamo tutto
Il malcontento che attraversa la società transalpina, e che di certo non è destinato a esaurirsi in questa prima ondata di manifestazioni, non è un’insofferenza generica e più o meno malriposta. Non si tratta di un’antipatia personale, che si concentra e si risolve nell’ostilità verso un singolo individuo. Benché arrogante come Macron.
Al contrario, ha ragioni profonde e urgenze concrete. Che erano già emerse in precedenza, con le ripetute proteste dei “gilè gialli”, e che si possono sintetizzare in una sola frase: la generalità dei cittadini non vuole pagare i costi di una crisi della quale non si sente colpevole.
Che i conti pubblici siano assai deteriorati è innegabile. Come ha ben riepilogato una nota dell’Adnkronos, che merita di essere letta in versione integrale, “la Francia ha registrato nel 2024 un deficit del 5,8% con un debito salito a fine marzo a 3.345 miliardi di euro (ovvero il 114% del Pil)”. L’ovvia ripercussione è che aumenta il fabbisogno di capitali per finanziare il deficit e che il loro costo tende a salire. Vedi alla voce spread, ossia il differenziale rispetto ai bund decennali emessi dalla Germania: al momento siamo poco sotto gli 80 punti, e quindi molto vicini alla parità con l’Italia, ma la tendenza sembra essere opposta. Da noi va meglio, Oltralpe no.
La ricetta prospettata da Bayrou era la solita: tagli massicci e immediati. Nell’intento di arrivare entro il 2029 ad abbassare il deficit fino al 3% e per un ammontare, nella Finanziaria allo studio, di 44 miliardi di euro. Nel mirino, tra l’altro, la Sanità, le pensioni e i dipendenti del settore pubblico.
Il Parlamento, come abbiamo visto, l’ha cassata all’istante.
La popolazione, a sua volta, sembra avere tutte le intenzioni di reagire attivamente. E con la necessaria durezza, non essendo una divergenza marginale ma un conflitto di vasta o vastissima portata.
La risposta automatica dello Stato, ovvero di Macron, è consistita nel dispiegare un’enorme quantità di agenti. Nella convinzione, anch’essa di routine, che pure questa volta basterà reprimere, come è già bastato in passato.
Ma è una posizione sbagliata.
L’ordine pubblico non è una gomma che cancella all’istante, e per sempre, ciò che non piace all’establishment. L’ordine pubblico deve essere il riflesso di un’armonia sociale. Altrimenti è un feticcio, un idolo, un tempio fittizio dietro al quale ci si nasconde per non assumersi la responsabilità degli squilibri che si sono prodotti.
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