Di Gerardo Valentini
“Abbiamo diritto all’autodifesa” afferma Israele. E perciò, pur di cancellare una volta per sempre la minaccia di Hamas, abbiamo anche il diritto di fare tutto ciò che è necessario per risolvere il problema.
Noi siamo la parte offesa, noi decidiamo come. Noi abbiamo subìto il terribile attacco del 7 ottobre. Noi vogliamo essere certi che un orrore del genere non possa ripetersi mai più. E se questo comporta mettere a ferro e fuoco l’intera Striscia di Gaza, con molte migliaia di vittime anche tra la popolazione civile, questo faremo. Continuando a oltranza finché non riterremo di aver raggiunto il nostro scopo.
Cosa c’è di sbagliato?
Non una sola cosa. Ma una lunga serie. A cominciare dal fatto che Israele, o se preferite il suo governo guidato da Benjamin Netanyahu, dà per scontato che la sua visione sia legittima per principio.
Siccome noi siamo la parte lesa, allora noi abbiamo il diritto di decidere come reagire. Senza nessun obbligo né di sottostare ai giudizi altrui, inclusi quelli degli altri Stati, né di farci frenare dagli appelli umanitari.
La condizione di vittima si ribalta nel suo opposto. Nella superbia, tremenda e unilaterale, del carnefice.
Due popoli, due Stati
È l’errore cruciale da non fare, guardare solo agli avvenimenti del 7 ottobre. Concentrandosi esclusivamente sugli attacchi efferati e ignobili di Hamas.
La questione palestinese, che del resto è un tutt’uno con la questione della nascita e della sopravvivenza dello Stato ebraico, ha radici lontane e sviluppi assai complessi, per non dire torbidi. Un ginepraio di ostilità viscerali e irrisolte su cui si sono innestati via via opportunismi e strumentalizzazioni di ogni genere. Sino a risucchiare le ragioni e torti in un groviglio inestricabile.
Oggi – a quasi ottant’anni dalla proclamazione dello Stato di Israele, il 14 maggio 1948 – quel groviglio va finalmente sciolto. O reciso, come il proverbiale nodo di Gordio.
Ciò che non venne fatto all’epoca lo si deve fare adesso. Al più presto.
Creando uno Stato palestinese effettivo e compiuto. Con un territorio adeguato alle esigenze dei suoi abitanti e con tutti i crismi istituzionali e giuridici, sia al proprio interno che in ambito internazionale.
Nonché, semmai non fosse già chiaro in ciò che abbiamo appena detto, senza nessuna interferenza del governo israeliano nella gestione amministrativa ed economica. A partire da quella delle risorse idriche ed energetiche.
Uscire dal limbo. Altrimenti…
Deve essere chiaro a tutti. Non si tratta di farlo se e quando Israele concederà il suo benestare, ma di farlo con una decisione autoritativa delle Nazioni Unite. Perché quello di cui parliamo non è un rapporto, anzi un dissidio, tra due singole entità, ma una piaga di portata planetaria e mai sanata.
È da questo limbo, che bisogna uscire. Assicurando le medesime garanzie di esistenza e di sovranità sia alla nazione che c’è già, Israele, sia a quella che dovrà affiancarla, la Palestina.
Si tratta di una soluzione difficilissima? Non c’è dubbio. Ma l’alternativa non è affatto la distruzione definitiva di Hamas, vagheggiata da Netanyahu e dai suoi sostenitori. Ammesso che Hamas scompaia davvero, o prima o dopo emergerà un’altra formazione analoga che ne prenderà il posto.
La vera precondizione della pace è rimuovere, o quantomeno attenuare il più possibile, le motivazioni della sofferenza quotidiana e dei risentimenti antichi.
Altrimenti, come è accaduto finora, sangue chiamerà sangue. A intervalli più o meno lunghi, e tuttavia senza fine.
Leggi anche:
Riforme costituzionali: c’è una malattia e va curata