Riforme costituzionali: c’è una malattia e va curata

Di Gerardo Valentini

A noi sembra evidente. A voi no?

A noi sembra evidente che la democrazia italiana sia profondamente malata e che, perciò, sia assurdo fare finta di nulla. Rifugiandosi nel solito mito, e nel solito alibi, secondo cui abbiamo “la Costituzione più bella del mondo”.

Anche ammettendo che lo sia (anzi: che lo fosse quando è stata promulgata il 27 dicembre 1947, poco meno di ottanta anni fa) il dato di fatto inoppugnabile è che molte delle sue indicazioni non hanno retto alla prova del tempo. Dal momento in cui venne scritta, all’indomani della Seconda guerra mondiale e in un’Italia che era tutta da ricostruire, i cambiamenti sopravvenuti sono enormi

Sia all’interno, sia all’estero. In ogni ambito della vita individuale e collettiva, dall’esasperazione dell’economia competitiva e delle sue spinte tecnologiche/tecnocratiche sino alla sfera geopolitica. Dagli stili di vita alla dissoluzione dell’etica tradizionale, puntualmente tacciata di moralismo e sostituita, tutt’al più, dalla pseudo meritocrazia dell’efficienza lavorativa.

Inoltre, qui da noi, non c’è dubbio che tra gli esiti di queste trasformazioni ci sia un generale degrado della politica. Tanto in chi la pratica in prima persona, quanto in chi la commenta nei media, in innumerevoli casi la faziosità prevale di gran lunga sull’approfondimento autentico. 

Complice la cosiddetta morte delle ideologie, che ha annichilito i preesistenti sistemi di pensiero e i relativi fondamenti valoriali, il dibattito si è immiserito e troppo spesso sprofonda nel battibecco da quattro soldi. O persino nel gossip: come nel caso dei fuorionda di Andrea Giambruno e della telefonata fake estorta con l’inganno a Giorgia Meloni.

Il risultato, arcinoto e tuttavia sostanzialmente ignorato, è che l’astensionismo è cresciuto a dismisura

Alle Politiche 2013 l’affluenza fu del 75 %. A quelle del 2018 calò di due punti e si fermò al 73 %. L’ultima volta, a settembre dell’anno scorso, è crollata al 64%. E nelle elezioni locali va ancora peggio. 

Molto peggio, spesso. Fino a scendere al di sotto del 50%: come nelle Regionali di febbraio in Lombardia (41,6) e nel Lazio (37,2).

Mai più, i premier imposti dall’alto

Il fenomeno è complesso e ha sicuramente molteplici cause, ma un aspetto decisivo è che tantissimi cittadini si sono convinti che recarsi alle urne sia una perdita di tempo. Visto che alla fine, gira e rigira, i giochi si fanno altrove. 

Al Quirinale, per esempio. Con gli accordi di Palazzo che hanno portato a più riprese, dal 2011 in poi, alla nomina di presidenti del Consiglio che non erano neanche stati eletti in Parlamento: Mario Monti, Matteo Renzi, Giuseppe Conte, Mario Draghi.

E allora, appunto, perché ostinarsi ad alimentare la messinscena? Perché accettare di farsi ridurre a dei semplici figuranti, nello spettacolo altrui? Beffati per beffati, quantomeno ci si risparmia il disturbo.

Non è un dettaglio. Non è un malvezzo secondario, che si può archiviare come un miscuglio di pigrizia e di disattenzione. Una condotta spiacevole, sì, ma tutto sommato ininfluente. 

Quando un numero così grande di persone rinuncia al proprio diritto di votare si pone un problema oggettivo di rappresentanza. E quindi di legittimazione: dei singoli eletti, dei loro partiti, delle assemblee di ogni ordine e grado in cui andranno a esercitare le loro funzioni.

Se è vero che la Costituzione non ha fissato nessun quorum, per sancire la validità delle elezioni, è ancora più vero che l’inesistenza dell’obbligo non azzera affatto la questione. La sfiducia che si è manifestata nel non andare ai seggi continua a sussistere, sia prima che dopo. A scapito di ogni altro rapporto con le pubbliche istituzioni e delle richieste, implicite ed esplicite, di collaborare al raggiungimento di quelle finalità collettive che sono la chiave di volta di una nazione, di una repubblica, degna di tal nome. 

Chiaro: a questa disaffezione non si è arrivati da un giorno all’altro e quindi non c’è nessun singolo intervento che possa guarirla di colpo. 

Ma l’idea che è alla base della riforma alla quale sta lavorando il centrodestra, con l’elezione diretta del Premier e una serie di altre misure che puntano a rafforzare la stabilità del governo, va nella direzione giusta: il popolo sceglie chi lo dovrà guidare per i cinque anni successivi e da lì in avanti, a meno di sconquassi eccezionali, può contare sulla solidità della propria scelta. 

Poi, se proprio la situazione dovesse precipitare e non ci fosse altra alternativa allo scioglimento delle Camere, vorrà dire che si tornerà a votare.

Nulla di strano, in una vera democrazia. 

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