Di Gerardo Valentini
Prendiamo le due notizie e mettiamole in parallelo. Non solo perché sono molto ravvicinate nel tempo, arrivate come sono a pochissimi giorni di distanza, e perché entrambe hanno al centro lo Stato di Israele. O se preferite la classe dirigente che lo governa, a cominciare da quel Benjamin Netanyahu che in altri contesti, non filo occidentali, verrebbe probabilmente tacciato di essere l’ennesimo autocrate: democratico nella forma ma non nella sostanza.
Cominciamo dalla prima.
Sabato scorso, il 13 aprile, l’Iran ha lanciato alcune centinaia di droni e di missili contro Israele ma l’attacco, in realtà più dimostrativo che altro, è stato neutralizzato in maniera pressoché totale dalle difese aeree. Le quali, attenzione, non comprendevano soltanto quelle israeliane, che sono comunque di alto livello, ma hanno avuto un cospicuo supporto dalle forze armate statunitensi e britanniche.
Questo aiuto, com’è noto, è risultato decisivo per il numero degli ordigni intercettati e non ha nulla di occasionale, specialmente per quanto riguarda gli USA. In altre parole, non si tratta affatto di un sostegno da ponderare caso per caso e da subordinare alle conseguenze che ne deriveranno ma di un appoggio pressoché indiscriminato.
Ciò premesso, passiamo alla seconda notizia.
Martedì scorso il succitato Netanyahu, dopo essersi incontrato con il ministro degli Esteri britannico David Cameron e la ministra degli Esteri tedesca Annalena Baerbock, se ne è uscito così: «Hanno tutti i tipi di suggerimenti e consigli, li apprezzo, ma voglio chiarire che prenderemo le nostre decisioni personalmente e lo Stato di Israele farà ciò che è necessario per difendersi».
Traduzione: noi facciamo come vogliamo. Ma voi ci appoggerete comunque.
Un’alleanza da riequilibrare
La questione, semmai non fosse già chiaro, va ben oltre la sfera puramente militare e si estende ad ambiti assai più ampi. Con ripercussioni che riguardano l’intero Occidente e che perciò devono essere valutate, e concordate, in maniera collegiale. O quantomeno coordinata.
Nessun dubbio: le teocrazie islamiche sono agli antipodi dei nostri valori e lo Stato di Israele ha il diritto di esistere, per cui va aiutato a tutelarsi da chi quel diritto lo nega. Tuttavia, l’alleanza non può essere a senso unico. Ossia a colpi di decisioni unilaterali come quelle rivendicate da Netanyahu.
La logica corretta e da ripristinare al più presto è un’altra. È la condivisione. Se è vero come è vero che da certe scelte deriveranno determinate ripercussioni e determinati oneri – vedi il pesante ridimensionamento del traffico marittimo che transita nel Mar Rosso o gli aumenti del prezzo del petrolio a causa delle turbolenze con l’Iran – allora diventa doveroso che le relative strategie vengano soppesate e stabilite in comune.
L’atteggiamento di Israele va in direzione opposta. Una posizione abituale, per non dire connaturata e inscritta nel suo Dna, che dà per scontato di poter godere all’infinito di uno status privilegiato ed eccezionale. In cui si combinano due elementi quanto mai asimmetrici.
Da un lato, un’assoluta autonomia riguardo a ogni tipo di questione, a partire da quella dei palestinesi dentro e fuori la Striscia di Gaza.
Dall’altro, l’obbligo automatico delle nazioni occidentali di schierarsi a sua difesa. In chiave sempre politica e all’occorrenza anche militare.
È un rapporto troppo sbilanciato e con rischi crescenti, per continuare ad avallarlo senza porre il problema.
È un’alleanza sghemba che esige un ripensamento: nessuno può decidere “per conto suo” se il conto da pagare, poi, ricade su chi viene messo davanti al fatto compiuto.
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