Di Gerardo Valentini
Eccesso di tutela, diciamo così. E sarebbe davvero ora di farla finita, liberandosi una volta per tutte da una norma che risale a un passato remoto e che nel frattempo, quindi, è diventata anacronistica.
Dovrebbe essere lampante: i presupposti di “sacralità” su cui si fondava sono venuti meno, e non da oggi, per cui la revisione diventa un aggiornamento doveroso. Doveroso e urgente.
La norma di cui parliamo è l’art. 278 del Codice Penale, che riprende una disposizione risalente a poco meno di cento anni fa. Più precisamente, al Regio Decreto n. 1398 del 19 ottobre 1930.
Il testo è tanto breve quanto insidioso: “Chiunque offende l’onore o il prestigio del Presidente della Repubblica è punito con la reclusione da uno a cinque anni”. Come viene opportunamente sottolineato sul sito brocardi.it, “Il reato si consuma quando sia comunicata con qualsiasi mezzo, un’offesa relativa alla persona del Presidente della Repubblica sia in riferimento a fatti che ineriscono all’esercizio o alle funzioni cui è preposto, sia a fatti che riguardano l’individualità privata, anche in relazione anteriori all’attribuzione della carica”.
Cosa c’è che non va?
È presto detto. Il punto debole è che a partire da quel termine, “offesa”, il diritto di critica risulta fortemente indebolito. Determinando una disparità inaccettabile tra la potenza comunicativa di ciò che viene espresso dal Capo dello Stato, dall’alto della sua carica, e ciò che invece si potrebbe obiettare alle sue posizioni. Che arrivando da quel pulpito si ammantano, giocoforza, di una autorevolezza speciale. E persino, agli occhi dei cittadini meno consapevoli, “oggettiva”.
Beninteso: un conto sono i richiami prettamente costituzionali che il Presidente della Repubblica fa quando si erge al di sopra dei diversi soggetti politici e delle loro contese, allo scopo di riaffermare i valori comuni e inderogabili. In questi casi, come si dice, è realmente un soggetto “super partes”. E in quanto tale merita un rispetto rigoroso, dovuto al fatto che nella sua persona si incarna la Costituzione stessa.
Ma il discorso cambia, eccome, se invece questa limpida garanzia di terzietà viene meno e lascia spazio a delle tesi opinabili. Anzi, faziose.
No, Manzoni non lo aveva detto. Però…
Il 22 maggio scorso è stato il 150° anniversario della morte di Alessandro Manzoni. Mattarella lo ha commemorato a Milano, in pompa magna, e nell’occasione si è lanciato in una serie di interpretazioni a dir poco discutibili.
Citando il Corriere della Sera, «Quei no a etnie e populismi. Cosa ci insegna Manzoni».
Secondo Mattarella (l’intervento integrale, per chi abbia la pazienza necessaria, lo si può trovare qui) l’autore dei Promessi Sposi sarebbe un antesignano delle odierne concezioni progressiste, che inorridiscono e insorgono di fronte alla difesa delle identità collettive imperniate sulla nazione dei propri avi.
«Nella sua visione – sostiene il Presidente della Repubblica – è la persona, in quanto figlia di Dio, e non la stirpe, l’appartenenza a un gruppo etnico o a una comunità nazionale, a essere destinataria di diritti universali, di tutela e di protezione. È l’uomo in quanto tale, non solo in quanto appartenente a una nazione, in quanto cittadino, a essere portatore di dignità e di diritti».
A dire il vero, nella notissima Marzo 1821, Manzoni auspica la riscossa di un’Italia che è “una d’arme, di lingua, d’altare, di sangue e di cor”. Il che, come inno alle specificità nazionali di cui essere orgogliosi, e quindi da voler preservare, sembra piuttosto inequivocabile…
Ma tant’è. Mattarella cita in modo, come dire, selettivo, e rielabora a modo suo.
Ed è proprio qui che si pone il problema che abbiamo sollevato all’inizio. Se le stesse libertà se le prendesse qualcun altro, lo si potrebbe tacciare tranquillamente di forzature arbitrarie. Ossia, detto in maniera più spiccia, di strumentalizzazione. Prendi un celebre, celeberrimo scrittore del passato e gli fai dire quello che ti pare. Trasformando qualche passaggio estrapolato qua e là nell’avallo delle tesi politiche, e attuali, anzi attualissime, che ti interessa sostenere. Propagandare. Magnificare.
Siccome arrivano dal Capo dello Stato, bisogna misurare le parole col bilancino per cautelarsi dal succitato art. 278 del Codice Penale. Esiste un modo garbato e non offensivo per dire che una certa tesi è arbitraria, per non dire risibile? Chissà.
La raccomandazione abituale è di adottare il criterio della “continenza”, ponderando accuratamente i termini. Dite pure, ma dite in modo cauto e rispettoso. E pazienza se c’è una smaccata asimmetria mediatica tra i Suoi Proclami ex cathedra e le vostre contestazioni a basso voltaggio.
La norma vigente spinge a questo. Ma la norma vigente va ripensata.
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