Di: Gerardo Valentini
Meno di una settimana. Molto meno. Da sabato 13 luglio, il giorno dell’attentato in Pennsylvania, al lunedì successivo, il 15, con l’apertura della convention repubblicana a Milwaukee. Imperniata sulla ratifica, scontata per un verso ma più che mai intensa per l’altro, della candidatura di Donald Trump alle Presidenziali del prossimo novembre.
Semmai avesse avuto bisogno di enfatizzare le sue chance di ritorno alla Casa Bianca, il tycoon newyorkese ha ottenuto questo risultato nella maniera più spettacolare e suggestiva che si potesse immaginare.
La fortuna nella fortuna, per lui, è stata che pur scampando alla morte ha subìto comunque una ferita, benché di striscio. Un esito accidentale che però è stato di gran lunga preferibile a uscirne completamente illeso. Sul piano sanitario il danno è stato minimo. Su quello dell’immagine si è rivelato provvidenziale.
Vederlo che sanguinava da un orecchio, e che tuttavia non si perdeva d’animo e anzi reagiva levando in alto il pugno e ripetendo l’invito, il richiamo, quasi il comando, a non mollare («Fight!») ha trasformato il dramma in celebrazione.
Un Capo che viene colpito in battaglia. Un Capo che non smette di incitare i suoi seguaci a proseguire la lotta.
Un Capo che avrà mille altri difetti ma che ha dentro di sé almeno una scintilla di ciò che un vero leader dovrebbe avere sempre e comunque: una passione indomita per la missione di cui si ammanta.
Un fuoco che è agli antipodi dei pallidi funzionari dell’establishment liberal-progressista, annidati nei palazzi del Potere. Laggiù negli USA come qui in Europa.
Oggi Trump. Domani…
“L’orologio di Bruxelles è fermo, quello di Washington corre.”
L’editoriale pubblicato ieri da Libero, a firma del suo direttore Mario Sechi, comincia così. Per poi aggiungere: “America 2024 è un vulcano che ha appena iniziato a ruggire. L’Unione Europea è il pigolio di una nidiata di pulcini ciechi che aspettano la chioccia di Washington”.
Il riferimento non è solo alla nomina, ovvia, di Trump a sfidante di Biden. Bensì alla scelta di quello che diventerà, in caso di successo, il nuovo vicepresidente americano: J.D. Vance.
Classe 1984. Senatore dell’Ohio al suo primo mandato. Infanzia e giovinezza difficili, in una famiglia a corto di soldi e con una madre tossicodipendente. Poi l’arruolamento nei Marines. E dopo ancora la laurea triennale in Scienze politiche. Seguita da quella più prestigiosa in Legge, nientemeno che a Yale.
Una storia personale che vale un romanzo. E che infatti ha raccontato egli stesso, con l’efficacia di un esordiente di talento, nell’autobiografia Hillbilly Elegy: A Memoir of a Family and Culture in Crisis. Uscita negli Stati Uniti nel 2016, ripresa tempestivamente da Rizzoli l’anno successivo. Con un titolo, però, più breve e molto più generico: Elegia americana.
Scrive Vance: “Sì, sono bianco, ma non mi identifico di sicuro nei WASP, i bianchi anglosassoni e protestanti del Nordest. Mi identifico invece con i milioni di proletari bianchi di origine irlandese e scozzese che non sono andati all’università. Per questa gente, la povertà è una tradizione di famiglia: i loro antenati erano braccianti nell’economia schiavista del Sud, poi mezzadri, minatori e infine, in tempi più recenti, meccanici e operai. Gli americani li chiamano hillbilly (buzzurri, montanari), redneck (colli rossi) o white trash (spazzatura bianca). Io li chiamo vicini di casa, amici e familiari”.
Un’altra America: post-liberale
È per questo che la scelta di Trump è stata, o è apparsa, così sorprendente. Perché al suo fianco non ha voluto una mezza figura ma un uomo di qualità e di carattere. Che ha delle idee precise su ciò che non va nella società statunitense e sulle contromisure da adottare. A cominciare dal fatto che non se ne possono abbandonare le redini nelle mani dell’economia.
O meglio: della speculazione economica. Degli imprenditori che non guardano in faccia a nessuno e che perciò, nella loro smania di profitto, non esitano a comportarsi da apolidi. Spietati. Nemici dei propri stessi connazionali.
Dice Vance: «La spinta principale dell’ordine americano postbellico della globalizzazione ha comportato fare sempre maggiore affidamento sulla manodopera più economica. La questione commerciale e la questione dell’immigrazione sono due facce della stessa medaglia: la questione commerciale è manodopera più economica all’estero; la questione dell’immigrazione è manodopera più economica in patria, cosa che esercita una pressione al rialzo su un’intera serie di servizi, dai servizi ospedalieri all’edilizia abitativa e così via».
Una lunga serie di reazioni a catena che vanno fermate.
«La visione populista, almeno per come esiste nella mia testa, è un’inversione di tutto ciò: applicare quanta più pressione possibile al rialzo sui salari e quanta più pressione possibile al ribasso sui servizi che le persone utilizzano. Abbiamo avuto fin troppo poca innovazione negli ultimi quarant’anni e fin troppa sostituzione di mano d’opera.»
È un filone di pensiero che negli USA esiste già da tempo e che, con la dovuta cautela nei confronti delle etichette, va sotto il nome di “post liberalismo”. Niente a che vedere con lo Stato assistenziale, che si limita a controbilanciare a spese dell’erario le iniquità generate dagli abusi del mercato. La convinzione, invece, che una società sana debba offrire occasioni di lavoro adeguato e di reddito dignitoso a tutti i cittadini di buona volontà che siano disposti a fare la propria parte.
Un ripensamento profondo che andrebbe avviato e diffuso anche qui da noi. Sperando che per Trump e Vance non sia solo uno specchietto per le allodole con cui attirare i voti dei meno abbienti.
Sapendo che, in ogni caso, la giustizia sociale non è un mero auspicio etico, né tantomeno una simulazione retorica. Ma il fondamento stesso della convivenza collettiva e dell’unità nazionale.
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