Trump e mica solo lui: la pace come paravento  

Uno slogan. O poco ci manca.

Già utilizzato nei primi mesi dell’anno in chiave anti russa, prima da Zelensky e poi da Ursula von der Leyen. Rilanciato nei giorni scorsi e usato a piene mani per glorificare l’accordo imposto da Trump per fermare i massacri di Gaza. Suona così: “la pace attraverso la forza”.

Bello, vero?

Di qua la pace, che tutto santifica e che tutti desideriamo, a maggior ragione dopo gli eccidi che si protraggono dal 7 ottobre di due anni fa. Di là la forza, che si presenta come la sorella nobile della violenza e che perciò gode di ben altro credito. La violenza è quella dei cattivi. La forza è quella dei buoni. Trump usa la forza. Trump è buono. 

Tre urrà per Donald. Tutti insieme. Per rendergli merito e consolarlo del Nobel mancato. O forse/probabilmente solo rinviato, nel presupposto che nel frattempo abbia aggiunto alla collana dei suoi successi anche la fine del conflitto in Ucraina.

Già: i suoi successi. 

Quelli che in troppi, qui in Italia, stanno acclamando come una vittoria comune, dando per scontato che “suoi” equivalga automaticamente a “nostri”.

Nostri come nazione. Nostri come popolo. Come cultura, etica, concezione dell’economia e della società.

Un’equivalenza che è tutta da discutere – ma discutere sul serio, a un livello di approfondimento che non viene neanche sfiorato dai mestieranti della politica e dai trombettieri dei media – e che dovrebbe suscitare immediati sospetti (sospetti?) su chi la spacci per una verità lampante e incontrovertibile.

Vale per i progressisti, che accantonano qualsiasi capacità critica e si precipitano a tifare per i Democrats, celebrando figure a dir poco ambigue come Hillary Clinton o comparse travestite da protagoniste come Kamala Harris.

Vale per i conservatori, o sedicenti tali, che scambiano i Repubblicani per i Custodi del Sacro Graal occidentale. Come se il fanatismo biblico fosse vera spiritualità. Come se la speculazione finanziaria fosse il volano del benessere generale.

Alleati di nome, succubi di fatto

Il filo conduttore è lo stesso. È il vecchio abbaglio, o il vecchio raggiro, dell’Occidente come un corpo unico: la democrazia liberale e bla-bla-bla. 

Gli USA a fare da capofila ma l’Europa che si allinea per pura convinzione. Da partner “con pari dignità”. Sia nel suo insieme, sia come singoli Stati. Partner che in effetti vengono puntualmente convocati a Washington, quando la Casa Bianca avverte la necessità di ribadire qualche direttiva a un governo specifico o ai vertici UE, e che tuttavia non se ne sentono affatto sminuiti.

Yes. Quando ubbidisci perché sei sostanzialmente d’accordo non c’è niente di male. E se lo fai anche quando il dissidio è smaccato, come nel caso dei dazi, non si tratta certo di asservimento. Bensì di pragmatismo: oggi perdi qualcosa, domani guadagnerai qualcos’altro. Meglio uno scapaccione ogni tanto, che finire nella lista dei nemici a tempo pieno…

Le attuali esaltazioni di Trump vanno appunto in questa direzione. Anteponendo gli esiti palesi alle motivazioni profonde. Nascondendo dietro quei risultati, che peraltro lasciano aperte molte incognite e che perciò andranno valutati nel tempo, le perplessità addirittura ovvie sulle strategie in cui tali mosse rientrano.

Omissioni che sono colpevoli di per sé, ma diventano capziose e sommamente infide nel momento in cui si ammantano quelle operazioni di un intento benefico assoluto.

Quando si fa finta di non capire che la vera pace consiste nel superamento dei motivi di conflitto, anziché nell’affermazione senza armi (o transitoriamente senza armi) di un assetto completamente sbilanciato a favore di una sola delle due parti in lotta. 

La si chiama “pace” ma in realtà è una forma di “ordine”. Che viene calato dall’alto grazie a una condizione di supremazia. Sulla base di uno strapotere, economico e bellico, che non dà scampo agli avversari e li obbliga a piegarsi per evitare conseguenze ancora peggiori.

Per chi è d’accordo l’eufemismo è a portata di mano: forza.

E fa il paio con un’altra formula abusata: la “parte giusta della Storia”.

Arrivano i buoni

È questo travestimento ipocrita, a stomacare. Questa sua pretesa di poggiare su una superiorità morale, o persino religiosa, oggettiva e indiscutibile.

Fare i conti con la realtà è purtroppo indispensabile. Ma non significa affatto avallarne le logiche o santificarne i dominatori.

Serve lucidità, non supponenza. Chi non è ingenuo lo sa benissimo, che le vicende internazionali sono imperniate sullo scontro di interessi e che, quindi, è impossibile essere del tutto equanimi.

Per lo stesso motivo, nessun periodo di pace è privo di attriti latenti. La chiave di volta è accrescere il proprio potere, che per definizione comporterà una contrazione, o prima o dopo, del potere altrui. Le convergenze potranno anche essere prolungate, ma non significa che gli interessi coincidano appieno e che rimarranno sempre così.

Il principio “win-win” vale in ambiti relativamente limitati. E solo quando gli obiettivi di una delle due parti sono compatibili con quelli dell’altra, nel senso che l’accordo reciproco non danneggia, né tantomeno pregiudica, il raggiungimento degli scopi essenziali che si vogliono conseguire.

Su scala planetaria, questa coesistenza perennemente pacifica è inverosimile. E lo stesso antidoto delle “zone d’influenza” va inteso come un contenimento preventivo e ad ampio raggio, ma non per questo definitivo e immutabile.

Analogamente a ciò che accade in economia – e nel mondo odierno si potrebbe ben dire, a malincuore e parafrasando von Clausewitz, che “la guerra è la continuazione dell’economia con altri mezzi” – la competizione non finisce mai. Quand’anche ci sia una piena intesa sulle regole del gioco, come tra gli speculatori di Borsa, i diversi soggetti non smetteranno di perseguire il massimo profitto a scapito dei concorrenti.

Squalo mangia squalo. Pur condividendo la stessa “squalitudine”.

Italiani siamo. E italiani vogliamo restare

Gli USA, che oggi sono gli USA di Trump ma che sono in continuità con molti e cruciali aspetti del loro passato, costituiscono una sorta di holding. E chi decide di assecondarli se ne deve assumere in pieno la responsabilità: si è messo al loro servizio per trarne dei vantaggi, che però esigeranno delle contropartite. 

Sul piano personale, problemi loro. Ma a noi interessa il piano collettivo: lo snaturamento che in quanto europei, e soprattutto italiani, ci troviamo fatalmente a subire nell’adeguarci a dei modelli che non sono i nostri. Che per ora non ci hanno ancora travolti, come accade invece oltreoceano, ma che incombono su di noi perché sono la diretta emanazione di certe premesse e di certi metodi.

La Sanità a peso d’oro, per esempio. La “normalità” dei doppi o tripli lavori per riuscire a campare. La disgregazione delle famiglie. L’abuso degli psicofarmaci, con gli oppiacei legali che spianano la strada a quelli illegali, e terribili, come il Fentanyl.

E via di questo passo. O di questa corsa, tanto frenetica quanto insensata. 

È il proverbiale, e propagandistico, “american way of life”

Ma american, appunto. Mai e poi mai anche european. E men che meno italian.  

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