Di: Gerardo Valentini
Eccolo qua, il via libera di Washington all’utilizzo di missili USA a lungo raggio, più specificamente gli ATACMS, per attacchi ucraini in territorio russo.
Certo: con qualche limitazione sulle aree da colpire, in modo da poter mantenere l’alibi del supporto essenzialmente difensivo, ma superando comunque il limite preesistente. Che imponeva a Zelensky il vincolo di usare gli armamenti occidentali nel solo ambito dei propri confini nazionali. E che consentiva di esibirlo come la prova inoppugnabile della propria sostanziale terzietà rispetto ai contendenti.
Come spesso accade, è il classico caso in cui il governo statunitense prende delle decisioni unilaterali le cui ricadute investono altre nazioni e altri popoli. E a smentire questa lettura non può certo bastare l’avallo, prevedibile e fervoroso, del neo premier britannico Keir Starmer e del presidente francese Emmanuel Macron: la questione andava affrontata insieme all’intera UE e ogni eventuale misura doveva essere concordata in via preventiva.
Il motivo dovrebbe essere lapalissiano. I rapporti con la Russia riguardano innanzitutto i Paesi europei, sia per l’oggettiva vicinanza geografica sia per le innumerevoli e pesantissime implicazioni. Che già oggi sono di natura economica e che in futuro – Dio non voglia – potrebbero estendersi ben al di là, trascinandoci in una guerra per la quale non siamo assolutamente pronti.
Né dal punto di vista militare né, ancora meno, sul piano della capacità di sopportazione dei relativi sacrifici, tra lutti, distruzioni e rinunce di ogni genere, da parte della generalità dei cittadini.
Per Washington è una partita a distanza, come lo furono la Corea e poi il Vietnam. O in tempi più recenti le due guerre in Iraq o quella in Afganistan.
Per noi, al contrario, è un conflitto sulla soglia di casa. Un conflitto che siamo abituati a ritenere soltanto ipotetico, convinti come siamo che nessuno si azzarderebbe a sfidarci sul campo di battaglia, ma che invece dovremmo considerare del tutto reale.
E in piena fase di avvicinamento.
Fuori luogo. Fuori tempo massimo
Rimaniamo su Biden, però. A questo colpo di coda di un presidente che è ormai giunto a fine mandato.
Un uomo di 82 anni che per le sue condizioni di salute – e parliamo di salute mentale, non di un logorio generico e prettamente fisico – nel luglio scorso è stato costretto a farsi da parte e a rinunciare al tentativo di essere confermato alla Casa Bianca. Perché nel suo ultimo dibattito televisivo contro Donald Trump era emerso appieno il suo declino cognitivo.
Un declino, come è ovvio, che non pregiudicava solo la sua ricandidatura e quindi le sue attività future, ma che metteva in discussione anche lo svolgimento delle sue funzioni attuali. Sia pure senza spingersi a rassegnare le dimissioni, che avrebbero comportato il trasferimento dei poteri a un personaggio a sua volta inadeguato come Kamala Harris, in questi ultimi due mesi di permanenza in carica la cosa più giusta e normale sarebbe stata limitarsi all’ordinaria amministrazione.
Tanto più che, con l’avvento della nuova Amministrazione, è annunciato un massiccio cambiamento della linea politica. Scena estera compresa. A cominciare dalle guerre in corso. Quella russo-ucraina in primis.
Una messinscena agli sgoccioli
Tirare il sasso e nascondere la mano. Fin dal primo momento – che in realtà non coincide affatto con l’attacco russo del 22 febbraio 2022, ma va retrodatato di almeno otto anni fino al 2014 e alla destituzione rivoluzionaria del presidente eletto Viktor Janukovich – l’atteggiamento dei Paesi occidentali sull’Ucraina è stato questo.
Un miscuglio di ipocrisia e aggressività. Di equilibrismi dialettici sul filo dei distinguo (risibili) tra partecipare a un conflitto e limitarsi ad appoggiare uno dei due schieramenti.
Come se riempire di armi e di soldi una nazione belligerante non comportasse alcun tipo di responsabilità diretta. E come se imporre sanzioni a raffica contro la Russia si riducesse, in fondo, all’ordinaria applicazione di un automatismo del tutto lecito, sia sul piano giuridico che su quello morale. Mosca ha violato un principio. L’Occidente la bacchetta. Beh, cosa c’è che non va?
La mistificazione è proseguita imperterrita. Tutti che sono dentro, tutti che fanno finta di esserne fuori. In guerra con la Russia? Ma no, solo a sostegno dell’Ucraina. Per aiutarla a difendersi.
Lo sbaglio, che peraltro non ha nulla di casuale, è stato affermare che le ragioni fossero a senso unico. Anzi, che esse risiedessero per definizione da una parte sola.
Una parte che in apparenza era quella di una singola nazione, appunto l’Ucraina, ma che in effetti coincideva con gli interessi atlantisti. Ovvero con l’intento – la pretesa – di allargare la propria sfera di influenza quanto più ad est fosse possibile, sfruttando a oltranza la dissoluzione dell’URSS.
Questa posizione così rigida, e così capziosa, ha generato tutto il resto. E purtroppo non ha mai portato a un congruo ripensamento.
Di fronte al protrarsi delle ostilità, e alla sempre più manifesta vittoria dei russi, si sarebbe dovuto aprire un negoziato autentico, imperniato sul riconoscimento di quello che alle persone non prevenute era stato chiaro fin dal principio: Putin non aveva affatto tutti i torti nel sollecitare garanzie sulla neutralità presente e futura dell’Ucraina.
Tuttora, invece, ci si crogiola nell’idea che la Russia possa essere sconfitta, o persino annichilita, per via militare. Detto alla Zelensky, «Bisogna costringere con la forza Putin alla pace».
Se ci crede davvero è un pazzo. Se lo fa per altri fini andrebbe smascherato una volta per tutte: insieme, si intende, a chi lo ha portato al potere e fa di tutto per lasciarcelo.
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