Francia, Germania, UE. Una crisi di sistema

Di: Gerardo Valentini

L’ultimo episodio è pura attualità: il crollo del Governo Barnier, messo lì da Macron con l’ennesima operazione calata dall’alto che non teneva conto dei risultati elettorali e che pretendeva di riassorbirli in una sorta di “ragion di Stato”. 

Un classico. Il popolo ha ragione solo quando asseconda l’establishment. Se lo fa è democrazia. Se non lo fa – se si azzarda a non farlo – allora è populismo. Una deviazione inaccettabile. Una “insubordinazione” da disinnescare con qualsiasi mezzo. Mascherando il ribaltamento da senso di responsabilità, da stabilità istituzionale, da necessità superiore.

Le notizie di giornata puntano i riflettori sulla Francia, ma le stesse dinamiche sono presenti anche altrove. Eccome. A cominciare dalla Germania di Scholz e dalla Commissione Europea di Ursula von der Leyen. Di fronte alle contraddizioni che esplodono – dal corto circuito tra i diktat green e l’impatto economico sull’industria automobilistica, fino all’ipocrita e miope gestione dei rapporti con la Russia, prima e dopo l’invasione dell’Ucraina – si resta ancorati ai soliti schemi di propaganda e di autoassoluzione. O persino di autocelebrazione, ergendosi a paladini della democrazia e dei diritti universali. 

Può cambiare la forma, ma non la sostanza. 

Nel caso di Macron l’arroganza è talmente scoperta da poter essere scambiata per un tratto personale. Secondo Alain Minc, vecchia volpe della scena transalpina, «Il problema è psicologico, non politico. Il guaio è il narcisismo. Macron è un personaggio narcisistico. Nicolas Sarkozy era egocentrico, aveva bisogno degli altri. Macron invece non ha bisogno di nessuno, il narcisismo lo fa bastare a sé stesso e lo spinge a non dar retta a nessuno».

L’analisi è corretta per un verso, ma per l’altro è incompleta. Anzi: fuorviante. Proprio perché riduce a difetto individuale quello che al contrario è un atteggiamento generale, sia pure non sempre così smaccato.

La medesima supponenza, infatti, è un dato che accomuna la massima parte delle classi dirigenti occidentali. Tanto più se europee e appartenenti a quei Paesi che più si identificano nella UE. Ovvero nei suoi assetti di potere e nelle sue finalità di egemonia pressoché a senso unico.

Il filo conduttore di questa protervia si può riassumere facilmente nel proverbiale “non disturbate il manovratore”. Ma per capirne appieno le implicazioni, i travestimenti, le giravolte, riassumerlo non basta.

Bisogna spingersi più in profondità.

L’epoca degli yes-men

Il primo vizio è così diffuso che tende a sfuggire. Paradossalmente, ma come avviene in innumerevoli altri ambiti, il suo essere palese finisce col renderlo meno percettibile. 

Il degrado diventa prassi. La prassi diventa norma. 

La politica, venute meno le grandi concezioni alternative alle (sedicenti) democrazie liberali, si riduce alla gestione dell’esistente. Nella migliore delle ipotesi, un’attività di stampo manageriale che si allinea alla “mission” prefissata. Nella peggiore, l’asservimento delle cariche pubbliche a interessi privati. O addirittura criminosi. 

Fare politica, di conseguenza, scaturisce sempre meno dagli slanci della militanza e diventa innanzitutto un mestiere. Ossia una carriera. Che in quanto tale antepone il proprio successo, la propria scalata alle posizioni di vertice, a ogni altro obiettivo. Con l’ovvia conseguenza di dover limitare il più possibile le occasioni di attrito, di scontro, di incompatibilità, con le strutture di potere già esistenti e dotate di maggior peso decisionale.

Non si vuole prevalere. Si vuole coesistere. Non si vuole stravolgere. Ci si vuole inserire. 

In cambio, ed ecco il secondo vizio, si assicura la propria collaborazione. Compito fondamentale: imbrigliare le spinte popolari che mirano a introdurre dei cambiamenti strutturali, a scapito dei privilegi detenuti dalle oligarchie e dalle loro cerchie di sostenitori.

Le menzogne da rimuovere

Per svariati decenni è andata così. Poi, a causa sia degli squilibri interni, sia dei sommovimenti internazionali che sono in piena accelerazione, la situazione è mutata. E il rabbonimento preventivo e permanente degli elettori si è fatto molto meno agevole.

Come ha giustamente sottolineato il politologo Giovanni Orsina sulle pagine del quotidiano La Stampa, “Stiamo assistendo alla protesta profonda e non effimera di segmenti consistenti dell’opinione pubblica che, abbandonati da un ceto dirigente oligarchico e autoreferenziale, si sentono alla mercé di un mondo sempre più complesso e cangiante nel quale l’Occidente gode di una posizione di sempre minor privilegio. Se così è, in quale modo questa protesta possa esser riassorbita diviene la domanda principale cui devono dare risposta le democrazie”.

Riassorbita?

No. Il termine è sbagliato. Ed è sbagliata l’intenzione. 

Non si tratta di smorzare il malcontento, fingendo di ascoltarlo nella speranza che con il tempo perda di intensità o che comunque si arrenda di fronte all’impossibilità di ottenere nulla più che le briciole, ma di riconoscere la falsità del teorema fondamentale. Quello secondo cui il modello dominante è nell’interesse di tutti. E perciò, o prima o dopo, in misura maggiore o minore, i suoi benefici si estendano alla generalità dei cittadini.

È ora di dirlo a chiare lettere. Questo non è vero. Perché può esserlo, o apparire tale, solo nelle fasi in cui la crescita economica è particolarmente forte e in continua espansione. Nell’Europa contemporanea, dove l’economia ha smesso da tempo di marciare a ritmi così potenti da trainare l’intera società, il ripensamento è d’obbligo. 

Quelle attuali non sono affatto tensioni momentanee, fatalmente destinate a ricomporsi in una ritrovata pace sociale, ma l’emergere di squilibri per nulla casuali e di menzogne ripetute troppo a lungo.

Formulare correttamente i problemi non dà nessuna garanzia di soluzione. Eppure è indispensabile. 

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