Presidenziali USA. Chi di spocchia ferisce…

Di: Gerardo Valentini

Lo schema è fisso: i progressisti sono buoni, i conservatori cattivi.

I candidati progressisti sono competenti (e sensibili), quelli conservatori sono rozzi (e brutali). 

Gli elettori progressisti sono dei sinceri democratici, ispirati dalla solidarietà universale nei confronti dei più deboli. Quelli conservatori l’opposto: scambiano il populismo per democrazia, subiscono il fascino dell’Uomo Forte e votano per un miscuglio, abominevole, di pregiudizi ottusi e di egoismi crudeli.

L’elenco potrebbe continuare. Perché lo schema fisso è in effetti un teorema e i corollari sono più o meno infiniti. 

Per esempio: se a sinistra si danno manforte gli uni con gli altri, distribuendo incarichi e altre prebende tra chi condivide le stesse idee e le stesse frequentazioni, non c’è nulla di male. Ma certo: è il normalissimo riflesso di un’affinità politica, culturale, esistenziale. Chiaro: ci si conosce, ci si apprezza, si collabora insieme a questo e a quello. E i quattrini, ça va sans dire, sono i legittimi compensi delle attività svolte. D’altronde, quando uno è bravo… 

Se invece le stesse dinamiche avvengono a destra, apriti cielo. È “amichettismo”. È “parentopoli”. È l’arroganza dei parvenu. È il malcostume elevato a sistema.

A sinistra ci si affratella tra “compagni”. A destra ci si associa in consorterie. In camarille. In cricche.

La superiorità dei progressisti – a insindacabile giudizio dei progressisti stessi – è totale e smaccata. Sia in ambito intellettuale, sia in campo etico. E lo è, secondo loro, a tal punto da non avere più nessun bisogno di essere verificata caso per caso.

Semplice. Basterà mostrarsi agli elettori in tutto il proprio fulgore e il resto verrà di conseguenza. Come – così si immaginavano – sarebbe accaduto puntualmente anche nelle Presidenziali USA.

Ma dai: vuoi mettere quel vecchio gaglioffo di Donald Trump con la ben più giovane, e ben più credibile, Kamala Harris?

Ma non li hai visti i sondaggi?! 

All’ultimo voto. Anzi no

Non ha funzionato. Ma proprio per niente. La campioncina dei Democrats, selezionata in quattro e quattr’otto per sostituire il vegliardo, e vacillante, Joe Biden, è uscita con le ossa rotte dalla sfida di martedì scorso. 

Secondo i piani avrebbe dovuto attirare una valanga di voti. Innanzitutto quelli delle donne, per l’ovvia solidarietà di genere (che però, tra maschi, diventa sessismo) enfatizzata dall’idea di avere una “madam President” e incentivata dalla difesa a spada tratta della facoltà di abortire anche dopo molte settimane da quando si è rimaste incinte. 

A proposito: in Arizona, tramite referendum appena svolto, il termine è stato innalzato a 24 settimane. Più che un feto, un bambino che in buona parte è già formato. Ma siccome “il corpo è mio e me lo gestisco io”, va bene così: il nascituro non ha nessun diritto e lo si può eliminare con la stessa libertà, assoluta, con cui ci si tagliano i capelli o si ricorre alla chirurgia estetica. Si decide, si fa. E che nessuno, ci mancherebbe, si azzardi a parlare di infanticidio.

I voti delle donne, dunque. Ma non solo. Alle schiere dei sostenitori si sarebbero dovuti aggiungere i membri di svariate altre categorie. I giovani della “Generazione Z”. Le solite minoranze affamate di riscatto, dagli afroamericani ai latinos e agli altri immigrati di varia provenienza. I ceti meno abbienti che per principio, o se non altro per abitudine, dovrebbero votare sempre e comunque a sinistra. 

Su, prendete una calcolatrice. Fate la somma. Guardate voi stessi a quanti milioni arriva, il totale.

Che carini, i fan di Taylor Swift

Poi, fatalmente, è arrivata la resa dei conti. Un trionfo per Donald Trump, una debacle per Kamala Harris: 295 a 226. E i conteggi non sono ancora definitivi. Inoltre, maggioranza assoluta già raggiunta al Senato e assai probabile anche alla Camera. 

I cosiddetti piani si sono rivelati essere, ancora una volta, una cosa ben diversa: dei copioni. In cui gli sceneggiatori di turno si illudono che ciò che vanno scrivendo, in base alle loro preferenze, sia destinato a realizzarsi davvero.

Come se un’intera società, benché ammaestrata da lunghissimo tempo a suon di media e star-system, fosse un tutt’uno con i film di Hollywood. O le fiction tv. O i reality show. 

Ed è proprio su questo che i progressisti – intesi sia come i politici di mestiere, sia come i loro fervorosi fiancheggiatori nei media e altrove – dovrebbero interrogarsi a fondo. Invece di continuare a compiacersi del sostegno, negli USA, di personaggi come la presentatrice televisiva Oprah Winfrey o degli endorsement di attori e cantanti.

Di fronte alla possibilità che i tantissimi fan di Taylor Swift ne seguano compatti le indicazioni di voto non c’è nulla di cui rallegrarsi. E il punto non è che lei si è pronunciata a favore di Kamala Harris. Sarebbe identico anche se si fosse schierata con Trump. 

La questione vera, e cruciale, è che un allineamento del genere, che equipara un artista pop a un riferimento politico, è sbagliato di per sé. Perché è agli antipodi della consapevolezza e della maturità che dovrebbe avere qualsiasi cittadino, in una democrazia degna di tal nome.

Ma i progressisti sono così: se lo fanno loro è giusto per definizione. Se lo fanno gli altri il contrario.

Una spocchia che diventa stupidità. E che pregiudica sempre più spesso la capacità di capire ciò che accade davvero. Negli USA come in Europa. Nel resto del mondo come qui in Italia. 

Leggi anche:

Trump a gonfie vele: con il favore del caso. O del destino

Alla fine Putin dovrà mollare. Ma è proprio vero?

Occidente: una boria che acceca